ADRIAN PACI: “L'INCONTRO, RICONOSCERE LE POTENZIALITÀ”

Antonella Marino (in collaborazione con Maria Vinella)

TESTO

IMMAGINI

E’ tornato in Puglia Adrian Paci, l’artista albanese che vive a Milano dagli anni Novanta, tra i protagonisti della scena internazionale. Frequenta la regione dal 2007, quando tenne una personale al Museo Pascali di Polignano a Mare come vincitore de Premio Pascali. Nuova occasione, il workshop di due giorni che ha tenuto nell’Accademia di Belle Arti di Bari sul tema “L'Incontro, riconoscere le potenzialità”. Si è svolto nell' ambito del progetto “EDUCATIONAL MANAGEMENT PER L’ARTE CONTEMPORANEA", promosso dall’ ‘Accademia, a cura di Antonella Marino e di Maria Vinella. Il trauma dell’abbandono della propria terra, il problematico contesto dell’Albania post-comunista, è stato punto di partenza per l’elaborazione di una ricerca originale, espressa con diversi linguaggi. Al suo interno, il vissuto personale segnato dalle dinamiche del viaggio e dello sradicamento, incrocia non solo un vissuto storicamente condiviso, ma anche il senso più ampio di precarietà della condizione attuale.                           

Nellincontro alla Pinacoteca provinciale di Bari hai coinvolto il pubblico, accorso numeroso, con un articolato racconto della tua vicenda artistica a partire dalla formazione in Albania. Ce ne puoi parlare? 

Non credo che il ruolo dell’artista sia quello di spiegare il proprio lavoro. Altri possono forse leggere qualcosa meglio di lui. Più che indicarne il significato, ho cercato così di raccontare la storia del mio percorso.

Io ho studiato arte in Albania quando c’era il regime comunista, che aveva una risposta su tutto. In arte questa risposta si chiamava Realismo Socialista. Avevo iniziato a disegnare e dipingere da quando ero molto piccolo. L’unica arte possibile allora era quella del Realismo. Lo studio era incentrato sui classici e arrivava fino agli Impressionisti: tutto ciò che c’era dopo veniva considerato arte degenerata, non degna essere esposta e che non era consigliabile studiare. Il nostro desiderio era di liberarsi di quell’arte figurativa, per cui tanti di noi negli anni novanta incominciarono a fare pittura astratta. Ma anche quelle pratiche invecchiarono velocemente. Nel ‘92 venni in Italia, a Milano, con una borsa di studio e cercai di comprendere quale fosse la scena artistica contemporanea. Andando nei musei mi resi conto però che le cose che facevo erano già state realizzate negli anni Cinquanta. Questo provocò la coscienza della nostra arretratezza e il desiderio di capire quale potesse essere la mia collocazione come artista in uno scenario che appariva molto confuso. Trovarsi in una situazione dove non c’erano risposte certe sull’arte era sconfortante. Così i primi anni italiani per me furono di confusione. Nel ‘95 rientrai in Albania ad insegnare, ma ai miei studenti, più che risposte, offrivo delle domande. Nel ‘97 sono tornato definitivamente in Italia con la mia famiglia, perché la situazione nel mio paese era diventata di nuovo difficile per il collasso del sistema democratico.

I tuoi primi video traevano spunto da quella realtà...

L’ idea mi venne un giorno a casa, ascoltando mia figlia di tre anni che raccontava fiabe alle sue bambole. Nei suoi racconti la voglia di divertirsi, di inventare storie e personaggi, si univa ai ricordi della guerra che noi tutti avevamo vissuto in Albania. Riconobbi la forza di queste storie, capaci di mettere insieme memorie di vita vissuta con la leggerezza di un gioco, i fatti reali con la finzione. Però non avevo un mezzo mio artistico con cui affrontarle. Allora chiesi ad un amico una telecamera, e a mia figlia di raccontare davanti ad essa le sue storie. Non c’era un’esigenza di fare videoarte, ma semplicemente di dare testimonianza a questi racconti. Nacquero così “Albanian stories”, che io considero un lavoro molto importante. Il fatto che questi video, dove non c’è alcun intervento di editing, siano girati con mia figlia, dava una specie di intimità e vicinanza. Ciò che mi interessava era però come attraverso il processo di story telling, della narrazione, un’esperienza anche traumatica venisse elaborata e portata al livello della finzione.

In questi primi lavori video la parola è protagonista. Successivamente ti sei sempre più affidato alla forza delle immagini. Emblematico è lultimo e impegnativo “The column” del 2013, presentato in anteprima al Palais de Tokio di Parigi e poi al Pac di Milano… Com’è nata e si è sviluppata lidea? 

La storia nasce da una circostanza casuale. Un giorno un mio amico mi racconta che stava restaurando un castello. Il proprietario voleva una fontana che faceva parte del luogo ma ormai era scomparsa. Gli fu detto allora che la scultura si poteva rifare prendendo la pietra in Cina e facendola scolpire in nave durante il viaggio. L’idea di una scultura che si può scolpire nell’ oceano durante il trasporto, per quanto sbagliata, aveva qualcosa di favoloso e fece nascere in me una visione. Verificai che esistono navi-fabbrica in cui il tempo del trasporto coincide con quello dell’esecuzione. Dovendo fare una mostra a Parigi e in altri musei, ho insistito per riuscire a produrre questo progetto. Ho scelto una colonna, una forma semplice ma anche ricca di significati: la stabilità, il potere, la verticalità. Qui, sdraiata, diviene simbolo di impotenza.

In questo video lo sguardo politico, che solleva ad esempio riflessioni sulle modalità del lavoro globalizzato, si fa qualità poetica. Come ti sei relazionato agli operai che hanno realizzato la colonna sulla nave, in condizioni faticose e difficili.

La mia relazione con gli operai si basa sul rispetto e non sulla pretesa di coinvolgerli in un “progetto artistico”. Loro stanno facendo il proprio lavoro ed io il mio. E’ evidente l’attenzione che io mostro verso di loro, ma questa attenzione non ha la pretesa di scavalcare una distanza che, ripeto, è una distanza di rispetto e non di indifferenza. Sulla nave eravamo insieme io con i miei due collaboratori e gli operai che scolpivano il marmo. C’erano anche i marinai della nave. La relazione che però viene fuori nel video è una relazione silenziosa, fatta sguardi non di parole. C’è un espressività nei loro corpi, nei loro gesti e nei loro sguardi e io cercavo di coglierla. Tutto questo si colloca all’interno di una visione generale e si relaziona con gli altri elementi; la nave, il marmo, l’oceano. Da una storia nasce una visione che si confronta con la realtà e la provoca. A sua volta la realtà provoca la visione e la mette davanti a delle difficoltà, oppure offre nuove possibilità. Qui non c’ è un arrivo, il viaggio rimane aperto, manca una chiusura anche a livello di significato.

Bello il passaggio che tu offri: dalla storia alla realizzazione e alla narrazione. E poi dalla visione per immagini (in questo caso immagini in movimento del video) alla visionarietà del linguaggio metaforico e creativo dellarte e dellartista, che osserva con sguardo – diverso e nuovo – la realtà con tutte le sue problematiche. Rispetto a questo percorso ci piacerebbe che aggiungessi qualcosa sulla performance del 2011 realizzata a Scicli, in Sicilia, che ha uno sguardo più “antropologico”. Si lega allo spazio, ma anche alle oltre seicento persone arrivate, al tuo gesto (la stretta di mano) che collega quello di tutti e diviene visione collettiva ed empatica...

Ogni ricerca nasce da intuizioni parziali. In questo caso volevo indagare le potenzialità della stretta di mano e creare intorno a questo gesto un rituale. Dare la mano è un gesto molto antico che ci accompagna in diversi riti e nello stesso tempo fa parte della nostra quotidianità Pensando all’importanza della piazza soprattutto nel sud Italia, ho voluto mettere in scena questo gesto, sistemando al centro una sedia dove dapprima rimango seduto in silenzio. Poi mi alzo in piedi e c’ è una folla di persone, una comunità che viene verso di me: circa settecento persone che si mettono in fila, passano davanti all’artista e attivano il gesto. Così nel momento stesso in cui pensavo al gesto ho pensato anche alle varie stratificazioni del senso della stretta di mano, ai significati che questo gesto porta con sé, e ho pensato all’immagine di questa scena, con una circolarità di persone che continuano a camminare lasciando però sempre lo spazio uguale. Non c’ è montaggio. Io rimango fermo per lasciare la visione della piazza attivata attraverso questo gesto. Anche qua si vede una mia tensione, che insieme alle cose che attivo deve poi trovare una traduzione in un’immagine. Anche questo lavoro ha dunque un aspetto iconico.

Un po’ come avviene in unaltra tua videoazione, “Turn on”, presentata alla Biennale di Venezia del 2004.

In “Turn on” cerco di far accendere una lampada con dei generatori azionati da disoccupati. La ripresa inizia soffermandosi sui volti dei partecipanti e ha un aspetto quasi performativo. E’ un lavoro che parte dal reale ma anche in questo caso crea un’immagine che vuol andare oltre. C’ è il senso dell’attesa, di una potenzialità incentrata sul generatore rumoroso e su questa lampada accesa, che va oltre il fatto concreto dell’Albania. Una situazione affine si ritrova anche in un altro video, “Centro di permanenza temporanea”, presentato alla mostra nel Museo Pascali nel 2007, dove un gruppo di immigrati in un aeroporto sale sulla scaletta di un aereo, che in realtà non c’ è… Pure in questo caso la poesia si basa sulla forza dell’immagine che evoca una situazione di attesa e che comprende una tensione verso una partenza. C’ è un inizio di partenza e un mancato arrivo, e insieme il senso di stare dentro una soglia. Ovviamente la memoria delle navi gremite di emigranti fa parte di un bagaglio che mi ha accompagnato nella gestazione. 

I lavori recenti hanno dunque un carattere meno narrativo e si basano sulla forza icastica dellimmagine; al tempo stesso i temi ricorrenti del viaggio, del transito e dellattraversamento, tendono ad allontanarsi dalla tua personale vicenda autobiografica e assumono un carattere universale... 

Faccio i miei lavori non per descrivere un fatto personale, ma perché vedo un’apertura verso una dimensione più grande. Però è vero che i primi avevano una connessione maggiore con una storia vissuta in prima persona e con personaggi vicino a me. Ultimamente ho sentito il bisogno di una distanza maggiore, ma non vorrei considerare questa una tendenza senza possibilità di ritorno. Fondamentalmente non penso che i lavori che sto facendo ora siano migliori di quelli che facevo all’inizio. Una ricerca va avanti cambiando e trasformandosi e in questo percorso ci possono essere deviazioni e ritorni, sguardi ravvicinati e visioni più ampie, ma non credo nel percorso a senso unico. Nessuno mi vieta che dopo un progetto articolato e impegnativo possa decidere di prendere in mano un foglio e una matita per fare un piccolo disegno.

Del resto tu hai sempre dipinto, affiancando una figurazione rarefatta alluso prevalente di altri linguaggi. Penso al bel ciclo dedicato al “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini o alle scene del “Decamerone”, nei primi anni Novanta. Nellultima mostra nella galleria Raffaella Cortese di Milano hai esposto solo opere pittoriche e mosaici. Quali motivazioni ha questa scelta?

“Il Vangelo secondo Matteo” mi colpì molto direi per la sua freschezza. Per la freschezza di raccontare una storia così tanto conosciuta in modo nuovo senza forzature e senza nessuna deriva scandalosa. E’ come se Pasolini vedesse con uno sguardo nuovo una vecchia storia, per cui mi venne il desiderio di condividere il suo sguardo e quell’ aspetto pittorico che trovo già presente nelle sue opere. La pittura per me diventava uno strumento per restituire a quelle immagini qualcosa che esse avevano già dentro.

Tornando alla tua presenza a Bari, frequenti la Puglia ormai da tempo: nel 2007 hai tenuto una personale al Museo Pino Pascali di Polignano a Mare come vincitore del premio Pascali di quellanno e da due anni insegni alla Free Home University nel Salento. Che rapporti hai con questa regione e che idea ti sei fatta del suo contesto artistico?

I rapporti che ho li hai già menzionati. Il premio Pascali è stato il primo momento di contatto con la scena artistica pugliese. Poi ho fatto una residenza a San Cesario chiamata Sound Res e da due anni sono coinvolto nel progetto di Free Home University che per la verità non è una scuola, ma un’esperienza di condivisione del sapere attraverso il vissuto e lo stare insieme. Il contesto artistico penso che abbia bisogno di nuovi stimoli e nuove sinergie sia a livello di spazi pubblici che di iniziative privati o indipendenti, ma non voglio apparire come quello che pretende di avere un idea e di dire la sua su contesti dove è stato solo ospite.

Nei tuoi discorsi emerge spesso il concetto di “potenzialità'”, che era anche il tema del workshop in Accademia a Bari. Cosa intendi con questo termine, e che valore ha allinterno del processo creativo?

Potente è qualcosa che ha la possibilità di trasformarsi in atto. La questione però, specialmente per chi fa arte, è di non esaurire la potenzialità chiudendo le possibilità, ma mantenerla presente nell’atto stesso. Sono questioni che la discussione filosofica ha approfondito da Aristotele fino ad Agamben, ma gli artisti la provano sulla propria pelle tutte le volte che mettono al mondo un lavoro.

A proposito del workshop barese, qual è il bilancio di questa esperienza?

Non sta a me fare il bilancio, caso mai ai ragazzi che hanno partecipato. Sono stati giorni intensi e un confronto onesto. Loro hanno mostrato generosamente il loro lavoro a me e io ho cercato di essere generoso e sincero con loro. Tutto qua...  


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