ALESSANDRO BULGINI, “TARANTO OPERA VIVA”

Antonella Marino

TESTO

IMMAGINI

Un trono composto da una vecchia sedia in plastica issata su tipiche lattine di birra, e un motorino decorato a motivi bianco/neri, gli stessi che ricoprono in un secchio gusci di cozze, dei pneumatici, un relitto di barca abbandonato in acqua, qui fotografato. O ancora, una cartina dell’Italia sbiadita dal contatto con l’umidità, che la divide in due parti dando al sud più nitido rilievo; le insegne colorate su assi di legno del palio dei pescatori tarantini; un dipinto preso dalla bottega di un vecchio artista/ artigiano del posto; tante immagini, giganti o piccole, che documentano azioni compiute quotidianamente per un mese nella città vecchia a Taranto. Tipo: tentare per un’ora di “spostare un’isola” cittadina, un lembo di terra tra Mar Piccolo o Mar Grande, con una semplice barchetta a remi (operazione paradossale, documentata come le altre dall’obiettivo fresco di Cosimo Calabrese).  Sono le tracce espositive riunite nelle sale di Palazzo Pantaleo a Taranto. Installazioni, video, foto, dell’intenso progetto relazionale “Taranto Opera Viva” che Alessandro Bulgini ha realizzato risiedendo per un mese nel bellissimo ma degradato centro storico, rapportandosi alla gente del posto con l’esigenza di riattivare un tessuto umano più che fisico e stimolarlo a riappropriarsi creativamente dei propri luoghi e della proprie storie. C’è un pò di naivète nell’entusiasmo con cui l’artista, in segnaletico abbigliamento rosso, ha condiviso comportamenti e spazi: nell’ alzarsi la mattina alle 6 per unirsi agli “spezzacozze” e dipingerne gli scarti (dando così rilievo e nuova dignità del loro lavoro); giocare per strada con i bambini; passare serate a chiacchierare in trattoria o al bar con l’immancabile e identitaria birra Raffo; cercare di “abbellire” con segni pittorici basilari ed effimeri il loro habitat. Ma certamente c’è anche molta sincerità e molto cuore in questo intervento, che lo rende diverso da parallele a volte fallimentari esperienze di arte pubblica come pratica sociale. Innanzitutto perché Bulgini crede a tal punto alla necessità di uscire dagli steccati autoreferenziale del sistema dell’arte, da aver messo convintamente da parte il suo virtuosistico talento pittorico, pur praticato con successo fino a pochi anni fa. Ma soprattutto, in questo caso, perché l’artista è tarantino di origine, anche se da oltre trent’anni vive fuori (ora a Torino). Il suo è dunque un ritorno affettivo che rende molto più credibile la rabbia per le ferite di una città stupenda e indecorosamente violata e l’esigenza di condividere con gli abitanti del suo quartiere più problematico una presa di coscienza critica, una consapevolezza delle proprie potenzialità e una voglia di riscatto che parta dal basso. E sembra che la gente abbia risposto a queste sollecitazioni in modo al di sopra le aspettative. La “generosità”, come messa a disposizione sincera di energie, è stata del resto a cifra peculiare dell’operazione. A partire dall’impegno del suo promotore, Gianmichele Arrivo con la galleria Cosessantuno, e dei curatori, Christian Caliandro e Alessandro Facente, supportati in loco da Lino De Guido. Fino ai tanti che hanno offerto con slancio il loro contributo, dal fotografo, al ristoratore, al bottegaio, e naturalmente l’artista stesso, che da questo scambio si è emotivamente moto arricchito e promette nuovi sviluppi dell’iniziativa…


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