DUELLANTI SILENTI AL “PASCALI” DI FRANCESCO BRUNETTI

TESTO

IMMAGINI

Un oscillare di onda; un bruciare di fiamma; la combustione di una sedia; un onanistico suonar di chitarra; l’affondare placido e danzante di un divano tra le acque del mare; un astronauta immoto perso nello spazio; il pettinarsi di un’ombra; l’esser vuoto di una stanza; lo svolazzare di una tenda; e poi altre, sino ad un totale di ventinove, piccole finestre, avvolte dal buio, chiuse su un minimalistico mondo interiore: piccoli rettangoli di video-luce, poco più grandi del palmo di una mano, che proiettano lo sguardo dello spettatore verso un mondo minimo fatto di realtà ed inganno, composto di gesti e di illusioni, elegantemente onirico e banalmente quotidiano. È “Relazioni”, video-installazione di Raffaele Fiorella, in mostra al Museo “Pino Pascali” di Polignano nella sala centrale immersa, per l’occasione, nelle ombre di un artificiale notturno. Lo stesso buio, tranciato invece dai fasci di luce, che illumina, nella medesima sala, le opere di Dario Agrimi. Una mostra questa (“DUEL”, a cura di Antonio Frugis) che è un sodale ed elegante scontro di estetiche, contrapposte ma evidentemente unite da una comune cifra poetica tanto votata alla ricerca della bellezza, quanto supportata da chiara raffinatezza compositiva.

I piccoli cubi lignei in cui si aprono le minuscole video-finestre di “Relazioni” cercano di disegnare una teatrale linea d’orizzonte cittadina, perimetri oblunghi di una città immaginaria, ma finiscono con il comporre, in forma di polittico, un involontario altare laico che celebra, rimandando in frammenti al piccolo teatrino della vita, la messa in scena del fare arte e la sua trasognanza poeticamente senza significato. Sadicamente voyeuristico l’approccio che l’artista chiede allo spettatore di avere nei confronti delle sue opere: il minuscolo richiede la prossimità, l’avvicinamento. Nulla è identificabile nella finestrelle di “Relazioni” se non guardando da breve distanza, sbirciando; altrettanto poco si comprende di “Le possibilità sono infinite”, sempre di Fiorella, se non ponendosi a poche spanne dei due minuscoli video-quadri che compongono ditticamente l’opera. Due minuscoli schermi retroilluminati, di non più che una decina di centimetri, incorniciati da un passepartout nero. L’artificio, degno degli albori dei giochi dioramici di luce, sta nelle minuscole quinte sovrapposte agli schermi: un nero profilo di foresta; ed un altrettanto scura scogliera sul mare. Nell’una l’animazione di una minuscola sagoma di uomo che corre infinitamente verso nessun luogo mentre le nuvole del cielo scorrono; nell’altra un tuffatore che si lancia ripetutamente verso il mare che sciaborda in un loop senza fine. La buona poesia non delude; e neppure lo fa l’artificio poetico de “Le possibilità sono infinite” in cui pare echeggiare l’eco delle quinte romanticistiche dei dipinti di Friedrich. Una dolce inquietudine vela con efficacia l'opera, lasciando traccia di se nel ricordo dello spettatore. Duole ammettere che non altrettanto possa dirsi per  "Segreto" ed "Assenza". La prima una installazione che ricostruisce, in miniatura retta su due cavalletti da lavoro, un angolo di stanza con finestra; la seconda una video-scultura posta a parete a tre metri d'altezza: appaiono entrambe meno convincenti, episodi interlocutori in cui la cifra stilistica poetica e minimalistica, apprezzabile e ben declinata nelle due opere precedentemente citate, ha in questi due ulteriori casi toni talmente minori da accarezzare la prevedibilità. È fin troppo scontato, infatti, in "Segreto", il gioco narrativo dello sdoppiamento identitario a cui è chiamato lo spettatore che, sbirciando una scena (l'opera stessa) in cui due omini, a loro volta, sbirciano oltre una minuscola finestrella guardando un cielo terso, diviene parte attiva dell’installazione e attore partecipe della stessa ricerca emotiva che l'opera richiama. Evocativo, ma troppo didascalico è "Assenza", sorta di oblò incastonato sulla parete oltre cui ammirare uno spazio interstellare in cui si staglia immobile un astronauta. Preferiamo ricordare, di questa mostra, il Fiorella che solletica il vouyerismo poetico dello spettatore!

Tutt’altro che intimistico, al contrario, il lavoro di Dario Agrimi. Se Fiorella con “Assenza” invita a guardare verso l’alto e a cercare uno spazio siderale incorniciato in una sorta di oblò sulla parete, Agrimi chiede di gettare lo sguardo verso il basso. Magniloquente e teatrale la sua “Limbo”, installazione in cui in un basso parallelepipedo ricolmo di petrolio resta parzialmente immersa una testa d’uomo modellata in materiale siliconico e il cui volto, deformato dallo spasmo del respirare a bocca aperta, pare essere sul punto di sprofondare completamente nel nero liquido. C'è il compiacimento della perfezione formale nelle opere di Agrimi in mostra, che risultano essere però troppo finemente compiute per suscitare autentica inquietudine. Quando ci si avvicina all'immota nera vasca ricolma di petrolio di "Limbo", l'ammirazione per la qualità realizzativa assolutamente perfetta e mimetica del volto, finisce per spegnere ogni possibile inquietudine derivante dallo specchiarsi sulla superficie del nero liquido oleoso. È algida anche “Oasi”, quadro di finta pelle umana realizzata anch’essa in silicone e intelaiata: il fascio di luce che nella buia sala museale illumina l’opera, ne esalta l’effetto iperrealistico, chiama all’ammirazione, ma non riesce ad essere evocativa; non “narra” nulla, non tocca nessuna corda, ci suggerisce la giusta ammirazione per la maestria dell’artista, ma ci lascia addosso una volatile sensazione di opera fine a se stessa. Tanta maestria tecnica, cui non si può che plaudire, pretende un più profondo sforzo concettuale! Le opere di Agrimi in mostra chiamano alla contemplazione, sono silenti, e per certi versi totemiche, ma il loro iperrealismo e l’estrema bravura compositiva del loro autore finisce per renderle mute. Lo spasmo di “Limbo”, benché lo evochi, non echeggia mai in forma di urlo straziante nell’animo dello spettatore: quella smorfia non evoca dolore ma piuttosto la prurigine dell’autolesionistico annientamento; quel viso non si deforma nello sforzo di emergere dal nero, ma piuttosto nel cercare l’ultimo respiro prima dell’abbandono. Dinanzi ad esso non sentiamo di volere pietosamente aiutare la riemersione, e neppure sadicamente agevolare l’immersione ed il soffocamento completo: ci compiacciamo di ammirare la materializzazione di un tempo sospeso.

Bene ha fatto il curatore a comporre i lavori dei due artisti, nell’unica grande sala avvolta dal buio, nelle due opposte metà dello spazio. Fiorella ed Agrimi con le loro opere si voltano vicendevolmente le spalle, non dialogano, ne mai allo spettatore suggeriscono l’idea che possano farlo. L’arte dell’uno nulla chiede e nulla da all’arte dell’altro, eppure, guardando la mostra, si ha la sensazione che entrambi avrebbero da guadagnare se cogliessero nel profondo ciascuno le intuizioni contenute nel lavoro dell’altro.   


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