"THE PICTURE IS A FACT". CONVERSAZIONE CON LIA CECCHIN

Antonella Marino

TESTO

IMMAGINI

Ci sono e non ci sono, non si vedono ma si possono vedere, ci parlano "a bassa voce" o si  danno come "presenze assenti"...Tutte le opere di Lia Cecchin - ventisettenne di origine veneta  che vive a Torino e ha studiato allo IUAV di Venezia - agiscono nell'interstizio di un pensiero  che si fa immagine mentale prima ancora che reale. Pur non rinunciando ad un qualche  ingombro fisico, sia pur solo evocato o suggerito, l'artista sceglie il registro della discrezione contro l'ipertrofia visuale e la polluzione iconica che ci invade. Ponendosi su quella linea di riduzione e smaterializzazione avviata dal Concettualismo storico, che si oppone agli eccessi della cultura di consumo e indaga al tempo stesso i limiti del sistema dell'arte e i rapporti tra sfera pubblica e privata.
Così nella mostra a tre "2.141 - The picture is a fact", ideata da Giuseppe Pinto col collettivo "Like a little disaster" in collaborazione con Cinzia Cagnetta prima alla galleria Omphalos di Terlizzi (BA) e poi nel nuovo spazio LALD di Torre Santa Susanna (BR), siamo coinvolti in un'impossibile caccia al tesoro; in una stanza vuota ci accoglie singolarmente un guardia sala che ci mostrerà in segreto un breve testo scritto ogni giorno dall'autrice, per essere poi distrutto e quotidianamente sostituito ("Una fotografia",2012). O ancora siamo attratti da un display, inedito contributo alla rassegna, con la semplice scritta "Memory lost": ready made simulato che riproduce un'insegna realmente osservata in un bar-tabacchi di Torino.
Sono lavori, come si diceva, in qualche modo sfuggenti ed evanescenti, in coerenza con la temperatura critica dell'intera esposizione, che pone l'accento proprio su "una ricerca intorno alle proprietà e alle potenzialità di materie e contenuti leggeri e impercettibili, diluiti in un alone 
ironico e concettuale". E che schiera l'inglese Elisabeth S. Clark, con due lavori, un ciglio d'oro disperso chissà dove nell'ambiente e un'installazione sonora dove la parola "Eco" risuona invisibile in vari punti della galleria; e il lituano Krišs Salmanis, con tre video che sollecitano un sottile sforzo percettivo. Accanto alla stessa Lia Cecchin, con cui partiamo da questi spunti per una breve conversazione...
- Come per altri artisti della tua generazione, sembra una scelta obbligata o quanto meno necessaria introdurre una sorta di ecologia visiva, dove la densità teorica si fa antidoto all' inquinamento percettivo e ai livelli di estetizzazione cui siamo sottoposti. Tu stessa hai detto di non voler "regalare sollievo formale" con le tue opere: puoi spiegare meglio?
Mi riferisco soprattutto alla forte repulsione che nutro nei confronti dell’immagine documentativa, premio di consolazione e riflesso naturalmente riconducibile alla laconicità delle mie opere le cui restituzioni formali tendono a volersi slegare il più possibile dall’estetismo. Accezione che trovo insidiosa e temibile e da cui sento di dover proteggere il mio lavoro, ovvero sfuggire il rischio che esso possa regalare sollievo formale, o peggio, ridursi a decorazione. Non ho mai pensato però all’antidoto. Credo anzi che siano l’inquinamento percettivo e i livelli di estetizzazione cui siamo sottoposti quotidianamente a costituire alcuni dei punti su cui mette le basi sia la mia ricerca, sia la fruizione effettiva dell’opera da parte dello spettatore.
- Tra gli interventi recenti, hai dichiaratamente "copiato" il lavoro di un tuo collega ("I'm showing your work because it's better than mine - Homage to Christian Frosi", 2013), un’operazione compiuta anche con un lavoro di Jiri Kovanda e con uno di Hans Peter Feldmann; hai vandalizzato in una sala delle piante morte ("Già dimenticata", 2012); hai mostrato un semplice aspirapolvere robot in funzione ("Nessuno ho nome", 2011)....In qualche modo sembra che tu ti sottragga, mettendo in atto dispositivi mentali e relazionali di riflessione critica per poi occultare la tua presenza. In che modo nella tua ricerca viene ridefinito il ruolo dell'autore? Tornando ai lavori proposti in Puglia, dove 
non sei venuta di persona ma appunto hai lasciato tracce fisiche o verbali di te stessa: ce ne parli meglio? 
Nel mio lavoro l’autore vive in funzione dell’opera e l’opera in funzione del suo fruitore. “Una fotografia” è la sintesi estrema di questo concetto. Lo spettatore viene messo di fronte a una stanza completamente sgombra, sorvegliata da un guarda sala istruito a estrarre dalla tasca della divisa un foglio – solo nel caso qualcuno gli si avvicini per chiedere delucidazioni in merito al lavoro – il cui contenuto è letto ad alta voce, andando a raccontare e rivelare ‘la fotografia’ di un attimo. “Una fotografia” altro non è che una relazione riferita al mio essere altrove; si tratta di un testo dove descrivo il momento che di poco precede quello condiviso con il guarda sala che lo dovrà stampare, entro l’orario d’apertura, e poi buttare dopo l’orario di chiusura. La mia totale sottrazione fisica, in questo caso, non è che un rafforzativo necessario al compimento di una operazione quotidiana dove solo con la parola do forma allo scenario di un altrove di fronte al quale io pongo lo spettatore. È un ricordo che andrà inesorabilmente a sbiadirsi, come una fotografia appunto.
- Giuseppe Pinto ha creato qui un inedito connubio, accostandoti a due altri artisti emergenti internazionali. Secondo te c' è qualche specifica sensibilità che distingue i giovani artisti italiani rispetto ai loro coetanei europei? Riconosci invece punti di convergenza?
Non mi piace generalizzare.
- Ma hai avuto maestri o modelli di riferimento? E ti identifichi in un contesto generazionale?
Sì. No.


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