SMEMORATEZZE. L’OBIETTIVO DI DOMINGO MILELLA

Alessandra Lozito

TESTO

IMMAGINI

Trentadue anni, barese. Domingo Milella si forma alla BFA, School of Visual Arts di New York, e, già dagli esordi, la sua attività di fotografo si permea di esperienze significative. Nel 2007, a Roma, espone i suoi scatti in una collettiva alla Brancolini Grimaldi; nel 2008 è ospitato per la prima volta dalla gallerista Tracy Williams, che gli dedica una solo all’interno del suo spazio nel Village ed è poi al Foam Fotografiemuseum di Amsterdam; nel 2011 è la volta della sua partecipazione alla Outer Ages of Some Buried Age nello scenario del Palazzo Coiro di Castelmezzano (PZ); mentre il 2012 torna ad essere ospitato dalla Brancolini Grimaldi, questa volta però nella sede londinese. Arriviamo al 1 Novembre 2013, quando Tracy Williams apre le porte della sua galleria, trasferitasi ed ampliatasi a Chelsea, NY. Le esposizioni di questo giovane e talentuoso artista barese sono il frutto e la rielaborazione di scene e momenti vissuti e catturati nel corso di emozionanti viaggi in giro per il mondo, durante cui Milella apre il suo obiettivo lasciando che vi entri l’atmosfera inafferrabile del tempo.

-          In che modo il tuo lavoro si inserisce e intercetta l’attività della galleria Tracy Williams che ti sta ospitando a New York?

In realtà questa è solo la mia seconda mostra personale da Tracy Williams, la prima fu quattro anni fa in un piccolo brownstone nel Village su West 4, quando Tracy abitava nella sua galleria, o diciamo la sua galleria aveva una stanza da letto, che era casa sua. Poi siamo cresciuti insieme, e ora lei ha uno spazio stupendo al numero 521 W 23rd St., dove Gagosian aveva la sua prima galleria, e al piano di sopra dipingeva Sandro Chia… Io credo di esser l’unico fotografo degli artisti che lei rappresenta e forse anche il più giovane rispetto ad artisti come Matt Mullican o a uno scultore come Richard Dupont…

-          Come ti sembra venga compreso e apprezzato il tuo lavoro nella tua città? E come nel resto del mondo?

Io penso che il mio lavoro sia molto semplice. Vedi quello che vedi. Non è il mio lavoro in sé ad essere o non essere apprezzato, ma forse è più il linguaggio usato a non esser facilmente codificato. A Bari i miei sostenitori sono i miei affetti, i miei amici, artisti o commercialisti che siano. Ma credo che essendo il mio lavoro radicato a elementi del territorio, è più facile vederlo dalla giusta distanza in luoghi più lontani, difatti i miei collezionisti più importanti sono americani e francesi, tedeschi e poi italiani, ora anche turchi per fortuna…

-          A cosa si ispira la tua ricerca artistica, ci sono dei modelli ricorrenti?

La mia ricerca credo sia imperniata sul tempo, sui tempi e sull’abitare, abitare il tempo forse, costruire memoria e contemplare la distruzione, la rovina di questa memoria. Smemoratezze. Il mio genere è il paesaggio, la città, le rovine, i villaggi, i cimiteri, le tombe, fotografo sempre più cose funeree… sino ad arrivare a fotografare vestigia, bassorilievi, inscrizioni, linguaggi arcaici smarriti e non decodificati.

-          Quanto è importante la proporzione, la misura nel tuo processo creativo?

Io credo nell’armonia tra forma e contenuto. Mi sento molto classico e, quindi, non sono estremo. Cerco un soggetto d’amare, un dialogo naturale, per produrre immagini e metafore, domande e soluzioni. La fotografia è un linguaggio molto superficiale ed è difficile darle peso e autorità. Io ci provo.

-          Quali sono gli strumenti con cui lavori? Che tipo di camera utilizzi, che obiettivo, cavalletto? Lavori in post-produzione o, piuttosto, è una fase che tralasci? La tua è una tecnica fotografica varia e composita o, al contrario, tradizionale?

Io lavoro in analogico, con un banco ottico da campo, uso da 10 anni solo negativi 20x25cm, quindi utilizzo un grande cavalletto. Ho sempre uno zaino con un paio di lenti, uso sempre una focalità normale, poi ho una borsa con i caricatori delle pellicole. Per fotografare porto in giro una trentina di kili, oltre ad una piccola scala per elevare il punto di vista e aiutare la messa a fuoco.  Vedo le immagini sotto un panno nero, proiettate all’incontrario ed invertite destra sinistra nel vetro smerigliato della mia camera oscura portatile. Dunque compongo tutte le immagini al contrario di come le vedo, e, poi, introdotta la pellicola, non vedo più quello che avevo inquadrato, lo devo ricordare prima di scattare la foto giusta. Poi passano due, tre a volte quattro settimane di viaggio, per poter vedere, al ritorno, i risultati dello sviluppo.

-          La figura umana è quasi del tutto assente nelle tue inquadrature. Appaiono quasi come vedute astratte di archeologia post-contemporanea, c’è una motivazione particolare per questo tuo gusto estetico?

Ci sono tanti motivi, nessuno in particolare. Il paesaggio è fatto dall’uomo e per me alle volte è più eloquente del ritratto di un solo individuo. Io ritraggo i legami tra le cose, non tra i soggetti, e le persone sono parte integrante del tempo, della città, delle tombe, delle rovine presenti e passate. Penso che la tensione archeologica sia una forma di citazione e autorità di fronte ad un confuso presente, dove dopo l’uomo moderno, ora, c’è un’umanità che vede, parla, ascolta, compra, vive e fa l’amore con il proprio cellulare… io invece mi sono rivolto alle pietre, ai morti, alle civiltà scomparse. Che scompaiono.

-          C’è un luogo, un viaggio, che è stato particolarmente significativo e simbolico per la tua crescita artistica?

La mia casa al mare in Calabria, a Sibari, luogo di gloria e  grande smemoratezza. Il mio primo viaggio in solitaria a Città del Messico a 24 anni ha demarcato l’inizio del mio percorso alla ricerca di un vero linguaggio artistico. Avevo vissuto troppo intensamente New York duranti gli anni universitari e scappare in Messico mi permise di ritrovare il sud, la casa, il sentimento che stavo cercando. Mi ha indicato la strada verso casa.

 

Cosa ti attende dopo New York ?

Sono appena tornato a Bari, dopo la mia più grande mostra su dieci anni di lavoro a Chelsea in mezzo ai mostri sacri e alla più grandi gallerie del mondo. E’ stato un successo sotto tutti i punti di vista. La città mi ha regalato ancora qualcosa di stupendo. Ma emotivamente mi ha drenato del tutto, New York è bella ma è diventata la matrigna del più veloce capitalismo. Non penso di voler più vivere lì, non penso che seguire il successo per un’artista sia solo una cosa buona. Anzi io cerco silenzio e sincerità, strade alternative al troppo luccicare di una logica di vita che assomiglia sempre di più alla pubblicità. Non so dove stia andando, per me il prossimo passo è rendere sostenibile e armonioso il passo precedente. 


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