VETTOR PISANI IN MOSTRA: LIRISMO, PENSIERO E CITAZIONE di F. Brunetti

TESTO

IMMAGINI

L’apollineo ed il dionisiaco: si rigiocherà all’infinito con aggettivi e sostantivi, incastrandoli tra verbi roboanti e solleticando il gusto primigenio per lo stupore (vezzo perversamente inappagato dello scrivere d’arte!), ma alla fine si continuerà a ritornare alla limpidezza della diade fondatrice di ogni riflessione sul fare artistico. Alzi, buon ultimo, la mano chi, passeggiando tra le opere esposte in mostra, non si sia chiesto semplicemente: c’è mente o cuore in queste opere; è gioco dell’intelletto o esuberanza della passione a muovere la mano creatrice di questo artista? Chi passeggerà nello spazio liricamente scarno del Teatro Margherita di Bari ammirando le opere di Vettor Pisani lì esposte, non avrà difficoltà a percepire d’essere dinanzi a lavori d’arte frutto d’un mirabile gioco dell’intelletto, opere il cui lirismo sta tutto nella raffinatezza compositiva sempre oscillante tra citazionismo consapevole della storia dell’arte e compiuta volontà di scriverne una pagina nuova che, di essa, si imponga come summa. È, questo, quasi un delirio, un’ambizione somma, da irridere nel mediocre, ma certamente da comprendere ed apprezzare nell’artista graziato da intuizione cristallina e da sicura maestria costruttrice.

Si è dunque, dinanzi alle opere di Vettori Pisani, ad ammirare soltanto gelida algebra, rigore meccanicistico della composizione strutturata per essere consapevolmente armonica? Certo queste sono componenti imprescindibili dell’opera dell’artista, ma non può negarsi che insospettabilmente il raziocinio della grammatica compositiva, non di rado, cede il passo al lirismo più intimo. Valga per tutte l’opera “Disegni del Tempo”: 20 lievi percorsi di grafite e pastello colorato che, posti su quel limite ultimo che separa la figurazione dall’astrazione, portano ad intravedere i confini del surreale. Nessun senso del grottesco, nessuna ironia: 20 disegni celebrativi, rituali, iniziatici che compongono un percorso di conoscenza dell’animo. 20 disegni intimi; inni d’arte alla morbidezza della linea liquida: sagome di volatili; profilo di volti; il rosso e l’azzurro tracciati e persi nel candore del foglio; orizzonti a formare paesaggi evocati. Disegni del 2011: quindi idee, tratti e colori che, noi che conosciamo il “dopo”, sappiamo essere stati generati in un tempo prossimo a quello dell’epilogo della storia artistica di Vettor Pisani. In fondo, a ben guardarla, questa retrospettiva è una mostra che, allo spettatore che si accosti alle opere con sguardo e animo disincantato, appare come una sequenza di epiloghi: tappe auto-concludenti di un unico percorso di crescita artistica; passaggi necessari di maturazione intellettuale con cui lo spettatore è invitato ad identificarsi. È un percorso di iniziazione collettiva al piacere della lettura complessa del “significato” per mezzo di un “significante” artistico raffinato ed articolato. Un esempio esemplificativo della articolata raffinatezza compositiva è sicuramente il catalogo del 1992 per la mostra “Il Teatro di Cristallo”. Con efficace scelta d’allestimento, il catalogo è stato scomposto: tutte le sue singole pagine sono state esposte, le une affiancate alle altre, a comporre una piccola parete in cui la qualità grafica della relazione tra immagine e parole, esaltata dalla monocromia blu, celebra il linguaggio iniziatico con cui l’artista ha descritto i sui personali percorsi nei territori dell’arte. Tra le pagine, non casualmente, si può leggere la citazione di Novalis: “Cerchiamo l’assoluto, ma ci aspettano soltanto le cose”: un disincanto romanticistico che non è affatto fuori-luogo anche nel definire l’epos di questa retrospettiva.

Attraverso le opere in mostra lo spettatore viene chiamato a confrontarsi, dunque, con l’idea della conquista del “significato” e spinto progressivamente ad accostarsi ai topoi della vita e del discorso artistico: la nascita ed il mito delle origini (“Senza titolo”, canestro uova di struzzo e pelle di capra), il destino (“I gemelli. Segno zodiacale del genio”), il tempo (“La ruota del tempo”), l’armonia della creazione (“Quadrato magico”), la sensualità (“Angelo dell’occidente”), la morte (“L’isola azzurra” e “Viaggio nell’eternità”), la celebrazione del percorso iniziatico dell’artista (“Studi su R.C. Theatrum”). Acme della mostra, agli occhi di chi scrive, sicuramente l’istallazione “Viaggio nell’eternità”: opera totalmente votata all’appagamento intellettuale ed emotivo dello spettatore: un sonoro cunicolo blu, oscuro, disegnato architettonicamente dalla penombra di un neon di eguale colore che lascia solo intuire le forme di una teca piramidale di plexiglass, posta in alto su di una delle pareti, e contenente una bambola prona in una posizione fetale. Armonia, purezza, lirismo cromatico, significanza compiuta della composizione degli elementi dell’installazione: una lezione per i tanti mediocri assemblatori di varia utensileria che, scordano il senso avanguardistico del fare “installazioni”, lasciano scivolare la difficoltà della reificazione del “concetto” verso la più svilente “maniera” carica di retorica o vuoto tecnicismo.

Nelle opere in mostra, si compie la mimesi della “messa in scena”: l’artificio della installazione diviene la verità dell’idea. La dimensione concettuale della “messa in scena”, però, non mira mai allo stupore, ma bensì alla riflessione. C’è una conquista razionale del “significato” che non passa primariamente dall’emotività. Anche nelle “messa in scena” apparentemente più urticanti è sempre il rigore della costruzione perfetta che vince, dando corpo alla conquista dell’idea attraverso passi che progressivamente dall’“ambiguo” conducono al “compiuto”. Le opere appaiono complete solo quando la loro compiutezza compositiva giunge a specchiarsi nella sicura e definitiva percezione di significato da parte dello spettatore. È il paradossale raziocinio dell’allegoria: un alchemico esaltare l’azione geometrica dell’artista piuttosto che l’opera d’arte in se.

In definitiva, tra citazionismo e ricercatezza del linguaggio figurativo, le opere di Vettor Pisani in mostra trasmettono un senso di assoluta sincerità intellettuale essendo, condivisibili o meno sul piano estetico, sicuramente parte di un coerente percorso artistico.

Da ultimo, chi scrive, non può esimersi dal notare come quell’unico grande palco per le arti che è il compiuto “rudere” del Teatro Margherita di Bari si sia mostrato, anche nel caso di questa mostra, un ventre femmineo capiente ed accogliente capace di esaltare, con la sua scarna brutalità architettonica, l’opera di un grande artista integralmente rigoroso, razionale e lirico.

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Piccola nota a margine, ma doverosa, è ricordare che la mostra al Teatro Margherita (curata da Andrea Viliani ed Eugenio Viola in collaborazione con Laura Cherubini, sostenuta dal Comune di Bari e organizzata con il coordinamento di Vito Labarile), è parte integrante di un progetto retrospettivo, di più ampio respiro, dedicato allo studio del complesso percorso artistico di Vettor Pisani ed avente il suo fulcro primigenio nella mostra, ancora in corso al MADRE di Napoli, ideata dallo stesso staff curatoriale. 

 

Francesco Brunetti


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