20.01.2011

Franco Cassano, Creatività e Mezzogiorno

Franco Cassano

TESTO

IMMAGINI

Dal convegno internazionale A Mezzogiorno dell'arte. Egemonie culturali e sapere dell'esperienza
Bari, 3-4 dicembre 2010, Castello Svevo
 
L’arte dello spariglio
Oggi, in Italia, sono in molti a parlare del sud, ma troppo spesso si è scelto negli ultimi tempi, da parte sia dei detrattori che dei difensori, di fare ricorso agli effetti speciali, a immagini semplificate e a effetto, talvolta propagandistiche. Se ne ricava la spiacevole impressione che nel nostro paese il leghismo e certi spettacoli trash abbiano conquistato l’egemonia, rendendo truculenti e aggressivi i termini di una discussione che, per essere utile, deve imboccare una strada diversa, nella quale non vada smarrita la complessità dei problemi. Per parlare oggi del sud, infatti, è necessario avere equilibrio e una mente sottile, bisogna essere capaci di evitare i luoghi comuni, che in realtà non sono mai dei veri luoghi comuni, bensì luoghi cari ad alcuni, ma resi comuni agli altri dal loro potere, dalla loro capacità di governare la comunicazione. È forse anche per questo che oggi l’Italia appare peggiore di quella che è e di quella che potrebbe essere, se solo la comunicazione non fosse governata per riprodurre il potere di qualcuno, costi quel che costi.
 
Per difendere le ragioni del sud bisogna tenersi lontani da due immagini di segno opposto. Da un lato c’è quella che rappresenta il sud come un inferno mafioso, come una terra che sa produrre solo la malavita organizzata, e dall’altro quella che lo raffigura come un eden felice o un idillio turistico. Ancora oggi l’immagine del sud oscilla tra questi due poli, tra un’enorme Gomorra e il goethiano “paese dei limoni”. Il discorso è invece molto più complesso e difficile: non solo esistono dei sud non riducibili a questi stereotipi, ma le ragioni e le qualità del sud esistono e sono anche importanti. Tali qualità però non si godono gratis, perché sono fragili e discontinue, e per poterle conservare e sviluppare è assolutamente necessario affiancare a esse delle nuove. Se non si fa questo innesto, quelle vecchie qualità vanno a finire nelle mani peggiori, che, come è già successo, le modellano sui propri bisogni, diventano vizi.
 
In altre parole per poter conservare le sue buone ragioni il sud ha bisogno di un’immaginazione coraggiosa, che gli consenta di riuscire a rappresentarle in una veste nuova, come occasioni utili a molti. La sua identità non è solo archeologia, è una costruzione che va fatta nel vivo della partita che si gioca oggi. Ma se questa partita il sud si limita a giocarla in difesa, è destinato a perdere: esso deve imparare a giocare all’attacco, avere il coraggio di sparigliare il gioco. La sua ambizione deve essere forte: non deve accontentarsi di offrire solo una cucina regionale o una specialità etnica, ma deve saper formulare delle ragioni generali. E lo deve fare partendo da una riflessione su se stesso, cercando di trasformare in opportunità gli ostacoli in cui s’imbatte, percorrendo strade che non sono la riproduzione ritardata e illusoria del cammino del nord, ma itinerari inediti per i quali occorrono insieme capitani coraggiosi e antiche saggezze. E solo il Signore sa quanto l’unità del paese abbia bisogno di questa immaginazione del sud.
 
La prima mossa dello spariglio che il sud deve provare a fare è quella di cercare di capovolgere in un vantaggio la propria posizione arretrata e marginale. Tale posizione “debole” comporta una miriade di problemi, perché la mancanza di potere rende difficile tutto. Ma la distanza dal potere, dalle luci e dalle vetrine mediatiche, consente anche di vederne meglio le incrinature, i giri a vuoto, le retoriche che lo accompagnano. A esempio quella distanza consente di scoprire che lo sviluppo è qualcosa di molto diverso da una gara dove ad ognuno è riservata una corsia e arriva primo chi ha più capacità. In realtà chi parte dopo trova lo spazio già occupato da chi è partito prima e non lo fa certo passare. Chi sta indietro poi non sta fuori dello sviluppo, ma dentro di esso, nel quale occupa una posizione periferica e subalterna: all’ideologia modernista che propone di raggiungere chi sta “avanti” ormai credono in pochi. Ma sono proprio le difficoltà crescenti dell’ideologia modernista che costringono a sparigliare il gioco, a pensare in un modo autonomo e non subalterno, ad osare la carta di una radicale innovazione.
 
Per dar vita allo spariglio bisogna ri-formare lo sguardo e smettere di guardare il sud italiano come una semplice appendice sfibrata del paese, minata da una progressiva cancrena. Se si riesce a sottrarre lo sguardo ai codici dominanti, si scopre che tutta la nostra penisola è il punto di congiunzione tra il nord e il sud del Mediterraneo, un ponte per molti aspetti unico che, muovendo dal cuore continentale di Europa, sembra toccare con la punta le coste della Tunisia e dell’Africa. Se il sud riforma il proprio sguardo può scoprire di non essere condannato a rimanere per sempre una periferia degradata dell’impero, ma di trovarsi in prima fila, perché si affaccia su un mare sul quale il nord-ovest incontra il sud-est del mondo. E se per Samuel Huntington, il teorico dello scontro delle civiltà, il Mediterraneo è una linea di frattura che divide l’impero atlantico dal resto del mondo, per chi abita nel nostro sud quel mare può essere invece un punto di partenza, il luogo di un nuovo inizio. Questa creatività storica è la madre di tutte le altre.
 
D’altra parte la rappresentazione di un possibile nuovo ruolo del sud non è un prodotto dell’immaginazione, la compensazione onirica di un’impotenza. A ricordarcelo è stato il formidabile schiaffo del 1991, quando nel porto della nostra città arrivò una nave carica di diecimila albanesi. Non solo Bari, ma tutto il paese e l’Europa furono colti di sorpresa, e iniziarono, con velocità molto, troppo, diverse, a capire che era finita l’epoca della Guerra fredda e che non esistevano più le vecchie frontiere a dividere il mondo. Io credo che di lì, da quello shock e da quella sorpresa, sia partita quella stagione creativa che è stata chiamata la “Primavera pugliese”, la spinta a un nuovo protagonismo, la coscienza che era cominciata un’epoca diversa, nella quale la posizione mediterranea del sud e del paese assumeva un valore strategico. Il Mediterraneo quindi cessava di essere visto come palude, frontiera, sottosviluppo, e diventava un vantaggio competitivo, il luogo di fondazione di una storia fondata non sullo scontro delle civiltà, ma sul suo opposto, sulla riscoperta di una patria larga, dove la fraternità non fa scomparire le differenze. A mescolare i geni per alcuni millenni ci ha pensato il Mediterraneo che, con la sua risacca, ha seminato su ogni sponda i segni dell’altro. Per scoprire la pluralità, chi vive qui non ha bisogno non di guardarsi attorno, ma solo di specchiarsi. Il nostro “noi” di mediterranei è pieno di altri.
 
Ma tutto questo non rende il nuovo protagonismo più facile; non dimentichiamo che esso è nato da uno schiaffo, e richiede l’abbandono dell’antico torpore che nasceva dalla condizione d’incolore periferia dell’impero atlantico. Questo sguardo, che spinge in prima fila chi prima traccheggiava in retroguardia, richiede l’impegno dei protagonisti e non l’inerzia dei sudditi. La prospettiva mediterranea richiede ai popoli che si affacciano su quel vecchio mare di mettersi alle spalle le vecchie divisioni e di federarsi, di rompere la propria condizione periferica, costruendo un nuovo centro, desideroso di collaborare con quelli esistenti, ma non più partendo da una posizione di debolezza e di divisione. Questo dell’unità tra i sud è un punto decisivo. Se i diversi sud, come spesso accade ai soggetti più deboli, giocano gli uni contro gli altri, questa prospettiva si scioglie come neve al sole. L’unico valore aggiunto che essi possono guadagnare nasce dalla loro unità d’azione, dalla costruzione di un gioco di squadra. Chi sceglie di andare da solo si accorgerà abbastanza presto di aver indebolito non solo coloro che abbandona, ma anche se stesso, perché il suo potere contrattuale rispetto al centro sarà sempre del tutto insignificante. E si tratta di un discorso che vale subito e per tutti: la capacità di fare squadra inizia in primo luogo dal sud italiano, che deve evitare la chiusura nel particolarismo regionale, ma anche la deriva mimetica che spinge frammenti sempre più piccoli a credere di poter nascondere, intitolando la loro secessione con l’aggettivo grande, dietro la nobiltà degli aggettivi la miseria dell’operazione culturale e politica.
 
La posizione mediterranea non è una rendita su cui ci si può sedere, una detrazione fiscale a favore del pensiero, una scorciatoia per piccole carriere, un risparmio di lavoro ed energia. Passare dalle ultime file alle prime, dal ruolo di comparse silenziose a quello di protagonisti richiede un coraggio e un rigore ai quali non siamo abituati. Molti infatti incollano l’aggettivo mediterraneo sulle pratiche di sempre, convinti che la posizione geografica riscatti da sola la qualità di un’opera o di un’iniziativa. L’autonomia progettuale è invece una pratica dura ed esigente, che mal si associa alle clientele e alle piccole recite trasformistiche. Essa richiede investimenti di lungo periodo, programmi ambiziosi, durezza e capacità di selezionare in modo rigoroso i protagonisti del cambiamento culturale. Scoprire di essere in prima linea non significa che il futuro passa sotto casa, ma solo che adesso è possibile andarlo a cercare gettando via le zavorre e chiedendo ad ognuno di dare il meglio di sé. Niente di meno.
 
 
Il sud nella critica postcoloniale
Dopo questa premessa è più facile misurarsi con la complessità dei temi proposti da Nikos Papastergiadis nella sua bella relazione, che offre parecchi spunti per una riflessione sul concetto stesso di sud. Nel discorso di Papastergiadis è, infatti, visibile la ricchezza di stimoli e riferimenti che nasce dal pensiero post-coloniale, da quell’orientamento culturale che negli ultimi anni ha guadagnato nel mondo intellettuale, specialmente in quello anglofono, una larga diffusione e popolarità, e ha permesso di mutare a livello internazionale la percezione del sud, sottraendolo alla definizione che esso occupava nel paradigma moderno. All’interno di quest’ultimo, infatti, il sud figurava come sinonimo di un endemico ritardo che s’ipotizzava fosse superabile con una politica di riforme. In questo vecchio quadro la forma di vita e di produzione del nord costituiva l’ideale indiscutibile, il modello da imitare, e per il sud il migliore destino possibile era quello di scomparire in quanto sud, di perdere ogni sua specificità, di diventare nord. Esso era niente più che un refuso da correggere, un’arretratezza da cancellare, uno scarto da colmare e cancellare.
 
Nel paradigma post-coloniale queste caratteristiche del sud scompaiono o almeno impallidiscono a fronte del suo definirsi come un soggetto autonomo, dotato di uno spessore culturale che occorre saper mettere in gioco e sottrarre alla marginalità alla quale era stato fino ad allora assegnato. Quel post va quindi preso sul serio, perché indica una nuova fase e in qualche modo una discontinuità rispetto al passato, e ha il merito di sottrarre la cultura prodotta dal sud al pensiero unico fissato dal paradigma della modernità e della cultura del nord. In altre parole sulla cultura del sud s’irradia la discontinuità prodotta dalla filosofia post-moderna con la sua critica della modernità e della razionalità. È grazie a questa discontinuità, e al relativismo che la caratterizza, che la cultura del sud esce dal ghetto e diventa una polarità che è possibile lanciare nel grande universo globale. Grazie a questa discontinuità quella cultura diventa potenzialmente maggiorenne: essa deve saper cogliere l’occasione e affrancarsi da vecchi schemi mentali, al vittimismo deve sostituire il protagonismo e aprirsi alla nuova dialettica della comunicazione, che consente di rinegoziare e definire le identità sottraendole alla loro fissità. Questi mi sembrano i punti forti e condivisibili della relazione che abbiamo ascoltato, le forti analogie tra essa e la tesi che sottendeva Il pensiero meridiano: “occorre restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato solo da altri”.
 
Chi ha percepito questa assonanza tra i due ragionamenti potrà anche immaginare la sensazione di sollievo che l’affermarsi della critica post-coloniale ha significato per chi aveva dovuto, allorché propose queste tesi, scontrarsi con il conformismo modernista, che riusciva a vedere in esse soltanto una manifestazione di nostalgia. In verità i nostri moderni, nonostante la modernità richieda di essere costantemente “aggiornati”, non erano ancora aggiornati abbastanza. Uno dei meriti dell’affermazione del paradigma della critica coloniale è stato quello di aiutare a vedere quanti fossero quelli che seguivano ancora la segnaletica del secolo scorso, senza essersi accorti che il mondo era cambiato sotto i loro occhi. Ma, come spesso accade, lo stabilizzarsi di questo nuovo orizzonte teorico e il conformismo che esso comporta hanno portato all’eccesso opposto e a presentare il pensiero meridiano come una delle sue manifestazioni o anticipazioni. Ma, almeno in parte, così non è, e proverò a illustrare le caratteristiche di questa differenza e a formulare anche alcune perplessità suggeritemi dalla relazione che abbiamo ascoltato.
 
Inizierei l’esposizione di tali perplessità sottolineando il rischio di sopravalutazione insito in quel post che segna in profondità, e non certo per caso, sia la parola post-moderno che la parola post-coloniale. Il vocabolo latino post, “dopo”, illustra una successione sul piano temporale e un suo uso “forte” contiene in sé il rischio di far credere che tale successione temporale coincida con una sostanziale e radicale discontinuità tra il prima e il dopo. Insomma che basti collocarsi in un post per capire tutto meglio ed essere in un’epoca del tutto nuova. Ovviamente le cose sono più complicate: il colonialismo non è certo finito con il crollo degli imperi europei e la nascita di stati formalmente indipendenti non ha cancellato le asimmetrie del vecchio rapporto, asimmetrie che il mondo globale talvolta dis-loca e muta di forma, ma finisce quasi sempre per esaltare piuttosto che ridurre. In altre parole io credo che il pensiero postmoderno e il pensiero post-coloniale siano esposti al rischio di pensare che il mutamento dei rapporti tra nord e sud sia un’operazione indolore, nella quale finalmente il sud può giocare alla pari.
 
Io sono molto più scettico e prudente, perché se è vero che il sud è entrato nel grande commercio globale delle idee e delle esperienze culturali, come ci ha mostrato in modo ricco e documentato la relazione di Papastergiadis, è anche vero che occorre chiedersi come incida su questa presenza quella che rimane una forte asimmetria di potere. La mia impressione è che l’estensione della categoria di sud proposta da Papastergiadis presenti, accanto a degli evidenti vantaggi, anche alcuni rischi, in primo luogo quello di immettere in un solo concetto figure tra loro profondamente diverse e contrassegnate da gradi molto diversi di disuguaglianza. Penso in altri termini che la situazione dell’Australia e della Nuova Zelanda sia profondamente diversa da quella dell’Africa e da quella dell’America latina e che questa differenza sia anche la conseguenza dei diversi processi di colonizzazione e decolonizzazione che hanno segnato quei tre continenti e dello straordinario intreccio di vicende che li hanno costituiti.
 
Mi sembra, ad esempio, che, se si parte dal sud neozelandese e australiano, le asimmetrie siano molto più ridotte che nel caso africano, dove la storia coloniale è stata diversa, ha alimentato la tratta degli schiavi, ha disegnato i confini degli stati ed è durata molto più a lungo, si pensi all’assassinio di Lumumba. Diverso è ancora il caso dell’India, il paese che forse ha dato gli esponenti più importanti e di maggior spessore alla costruzione della critica post-coloniale, da Spivak a Bhabha, da Appadurai a Chakrabarty[1] agli studiosi dei “Subaltern studies”. Per adesso mi limito a sottolineare che una nozione di sud troppo elastica finisce per mettere in secondo piano il sud più debole e marginale, quello che non ha successo, e per spingere invece al centro della scena l’esperienza di quei paesi e di quelle koiné culturali che si sono inserite con maggiore successo nel processo post-coloniale.
 
Ma se si osserva più da vicino questo orientamento teorico diventano inevitabili due osservazioni. La prima è che il postcoloniale non è come l’Assoluto di Schelling, che Hegel definiva sarcasticamente “la notte in cui tutte le vacche sono nere”[2]. Tra gli studiosi citati esistono, infatti, sensibilità anche molto differenti. Alcuni di essi sono per così dire più “orizzontali”, disegnano cioè un percorso relativamente facile di scambio e comunicazione tra le culture e insistono sull’assoluta novità prodotta dalla creazione di nuovi prodotti culturali ibridi e interstiziali. Nascono così la nozione di “terzo spazio” di Bhabha[3] e quella di “comunità diasporiche” di Appadurai[4]: per questi autori la modernità è andata in frantumi e il mondo globalizzato è composto da mille schegge che si mescolano secondo logiche che non appartengono più a società statiche e chiuse. Una descrizione ricca e suggestiva, ma appunto tutta orizzontale, nella quale il sud diventa uno dei tanti nodi della rete, perdendo non tanto alcuni tratti della sua identità, che viene incessantemente rimodellata e rinegoziata, ma soprattutto la dura specificità della sua posizione subalterna. Lo spazio della rete postmoderna mette sullo stesso piano tutti i nodi che la compongono e l’unica differenza diventa quella tra la quantità di relazioni e di comunicazioni di cui ognuno di essi è dotato. Mi sembra che Papastergiadis sia più vicino a questo orientamento che all’altro, quello dei “verticali”, gli studiosi che insistono invece sulle asimmetrie esistenti tra i nodi della rete, sulle disuguaglianze di potere, e qui penso non solo agli storici dei “Subaltern studies”[5], ma anche a Gayatry Spivak[6] e, lontane dal mondo accademico, ma dotate di grande valore e di una più diretta capacità di impatto sulla vita concreta dei popoli postcoloniali, a figure come quelle di Vandana Shiva e Arundhathy Roy[7].
 
In questo caso più che a una rete siamo di fronte a uno spazio asimmetrico per il cui cambiamento non basta l’intensità delle comunicazioni e degli scambi, ma sono necessari conflitti e mutamenti profondi nei rapporti di potere. Confesso che, per quanto riconosca il valore del contributo degli “orizzontali”, i “verticali”[8] mi sembrano molto più realisti sulla portata del cambiamento e più capaci di attirare l’attenzione sui rischi apologetici connessi a un’immagine della rete così piatta e simmetrica.
 
È fuori discussione che le ideologie del moderno, che hanno contrassegnato il secolo scorso, siano ormai alle nostre spalle, ma se le terapie che esse avevano inventato si sono rivelate inappropriate, le patologie a cui credevano di poter dare una risposta non sono anch’esse alle spalle, ma stanno tutte di fronte a noi. Le disuguaglianze, infatti, lungi dall’essere scomparse, in taluni casi si sono accentuate: pretendere di descriverle, come spesso è tentata di fare la filosofia postmoderna, come alcune tra le tante “differenze” implica una grave semplificazione del pensiero, il rischio di cadere nella notte hegeliana di cui abbiamo parlato. Del Novecento c’è sicuramente molto da gettare, ma bisogna evitare di gettar via, insieme all’acqua sporca, anche il bambino, insieme alle ideologie onnipotenti e inconcludenti anche l’impegno a lottare contro le disuguaglianze.
 
 
Necessità di una mente sottile
Siamo arrivati a un punto del ragionamento in cui è forse possibile fare un passo ulteriore per ribadire quanto avevamo anticipato all’inizio e cioè che lo scarto di potere a sfavore del sud possiede anche un altro significato, questa volta positivo. È proprio questo scarto che permette, infatti, di percepire che accanto alle patologie del sud esistono anche quelle del nord. In altri termini il sud non è riducibile solo a una connotazione negativa, a un ritardo: esso non è un semplice non-ancora-nord, la versione arretrata e imperfetta di un modello ideale ricalcato sul nord. Al contrario, è proprio questo suo scarto rispetto al nord a offrire un parametro critico per percepire le patologie della forma di vita dominante e della globalizzazione. Il sud non pretende certo di costituire un modello di vita esemplare, ma rivendica con forza la sua estraneità alla modernità liquida[9], a una società nella quale tutti i rapporti sociali sono provvisori e a termine, in cui la intensificazione e la velocizzazione di tutte le esperienze spesso coincide con la loro banalizzazione e il loro impoverimento. La velocità dischiude all’uomo nuove possibilità, ma ne fa scomparire altre. La società dell’“usa e getta”, dell’innovazione perpetua, dell’espansione illimitata, della contrazione dell’esperienza nell’orizzonte del presente, la società che ripete life is now, che si è alleggerita di ogni passato e ha dimenticato ogni futuro è come un’autovettura sempre più veloce e sempre più confortevole, ma totalmente priva di freni. Ebbene il sud, per fortuna non da solo, è il portatore di una forma di esperienza che si propone di far apprezzare il valore della lentezza, che pensa che la durata e la profondità non siano vecchi ostacoli da cui liberarsi, ma costruzioni anti-sismiche capaci di metterci al riparo dai terremoti della velocità, una forma di esperienza che non si propone di lubrificare il meccanismo, ma di provare a modificarlo.
 
E chi pensa che tutto questo sia solo nostalgia dovrebbe guardarsi intorno per poi scoprire quanto della lentezza abbia bisogno non tanto il sud quanto l’intero pianeta, per evitare di farsi risucchiare dalla dismisura, da quell’hybris faustiana in cui Spengler vedeva il vero Dio dell’Occidente[10]. Penso a Peter Handke, a Milan Kundera, ma anche a Wim Wenders, a Theodor Anghelopoulos, a David Lynch e a tanti altri[11]. Penso anche alla visual art di Bill Viola[12] la cui potenza metafisica sarebbe inimmaginabile senza la slow motion, senza il suo scavare nella grana del tempo, il riuscire a rendere visibile quella micro-fisica dell’anima, che è possibile cogliere quando osserviamo le sue opere. La difesa della lentezza, d’altra parte, non comporta una condanna della velocità in quanto tale, ma solo della sua assolutizzazione, di quella stolta presunzione che pensa che velocizzazione del mondo e progresso umano coincidano. Il vero progresso invece sta nella poli-cronia, nella possibilità di dominare il tempo, di disporre di tempi diversi, di poter scegliere di essere lenti o veloci. E questo possibilità di accostare velocità diverse permette di cogliere un’altra dimensione dello stare a sud.
 
Ogni atto creativo nasce, come ci ha insegnato il multiforme ingegno di Arthur Koestler, da una bi-sociazione, dalla capacità di associare due “sistemi di riferimento (..) che sono di solito incompatibili”[13]. La mente sottile di cui abbiamo parlato all’inizio, è in altre parole una double-mind, una mente capace di scorgere o concepire delle relazioni inedite tra eventi o significati normalmente appartenenti a universi diversi. Questa bi-sociazione, questo accostamento tra elementi che di solito non si frequentano e non si incontrano, dà vita a dei prodotti nuovi, apre un’enorme spazio alla produzione di ciò che le vestali della coerenza e dell’integrità di ogni universo non riescono neanche a concepire. Sul piano del linguaggio verbale questo atto creativo può andare dalla metafora, la forma forse più semplice di questa intersezione, all’ossimoro nel quale essa assume la forma di una collisione, alla produzione di neologismi, nel duplice significato di parole nuove o di slittamento del significato di parole esistenti. Che cosa è un atto creativo se non quello che nasce da un accostamento inedito, da un’associazione impensata, dall’umorismo all’opera letteraria, musicale o pittorica, ma anche alla costruzione di un nuovo movimento culturale o politico?
 
Ma se la creatività dipende da questa capacità di intersecare degli universi altrimenti paralleli, è evidente che chi vive sulla frontiera ha da sempre una grande familiarità con questi accostamenti inediti e chi vive sul Mediterraneo questa agilità d’ingegno la allena da millenni. Ma, come sempre succede, bisogna evitare di scivolare sul versante opposto a quello dell’auto-commiserazione, evitare che questo riconoscimento si trasformi in una stolida apologia, in un patetico sentimento di superiorità. Per due ragioni di diversa densità. In primo luogo occorre evitare che tale agilità intellettuale funzioni come meccanismo di compensazione di feroci disuguaglianze: l’arte di arrangiarsi richiede una vivacità d’ingegno, che sarebbe meglio destinare non alla sopravvivenza, ma all’eccellenza, mentre troppo a lungo è accaduto il contrario, troppo spesso è stata ridotta a uno stato primordiale.
 
La seconda osservazione è strettamente connessa alla prima, ma ci spinge su un territorio più impegnativo. Nel corso degli anni Novanta da parte di alcuni studiosi[14] è stata affacciata l’ipotesi che al sud italiano si presentasse l’opportunità di passare direttamente da uno stadio incompiuto e imperfetto della modernità alla fase postmoderna, saltando almeno in parte la centralità della cultura industriale, e la costrittività della disciplina richiesta e imposta da essa. Insomma è stata proposta l’idea che il passaggio all’era postindustriale e postmoderna costituisse una formidabile occasione per valorizzare quelle dimensioni culturali della tradizione meridionale, che, nonostante si siano mostrate poco compatibili con il rigore e il razionalismo del moderno, possono invece aiutare oggi il sud a inserirsi con successo in una società fondata sul primato dell’immagine, delle emozioni e della creatività[15].
 
L’indicazione di questa “scorciatoia” è sicuramente utile, ma le patologie che oggi colpiscono una parte del Mezzogiorno e in particolare Napoli costringono a non sottovalutare gli effetti negativi derivati dalla progressiva dismissione dell’industria. Occorre avere presente anche il quadro del tutto opposto che emerge dal libro di Ermanno Rea:[16] “ma vi rendete conto che abbiamo perduto? Non una semplice battaglia, ma la guerra. Almeno questa guerra, l’abbiamo perduta. Le fabbriche a Napoli non hanno indotto nessuna modernizzazione. Dicevamo: l’Ilva entrerà nel vicolo e lo bonificherà. Alla lunga è accaduto l’inverso: il vicolo è entrato nell’Ilva e l’ha inquinata. La fabbrica di Napoli. La sola cosa buona che abbia prodotto è una certa quota di coscienza proletaria dentro la città melmosa”.[17]Forse Rea rimane prigioniero di una storia che è irrimediabilmente passata, fatta di dura disciplina e di scorie industriali che si posavano di notte sul pavimento dei balconi, ma appare molto difficile disegnare la condizione presente come un progresso. La mente sottile deve servire anche a questo: non solo a giochi di ingegno brillanti, ad agilità e fantasia, ma anche a farsi carico del doppio lato delle cose, anche questo lato è ruvido e spiacevole. È inutile nasconderlo: abbiamo di fronte un percorso difficile dove vivacità intellettuale e rigore non si devono escludere, ma giocare nella stessa squadra. Fino a quando l’una giocherà contro l’altro non c’è speranza di vincere la partita.
 

[1] D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004.

[2] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, I, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 13.

[3] H. K. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001.

[4] A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001.

[5] “Subaltern studies : writings on south Asian history and society”, Oxford University Press, Dehli 1982; R. Guha, ed., A subaltern studies reader, 1986-1995, University of Minnesota Press, Minneapolis - London 1997; D. Ludden, ed.., Reading subaltern studies: critical history, contested meaning and the globalization of South Asia, Anthem, London 2002: V. Chaturvedi. ed., Mapping Subaltern Studies and the Postcolonial, Verso, London 2000. In italiano si può vedere S. Mezzadra, (a cura di), Subaltern studies. Modernità e postcolonialismo, ombre corte, Verona 2002.

[6] G. C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004; ma anche D. Landry and G. MacLean, eds., The Spivak Reader: selected work of Gayatry Chakravorty Spivak, Routledge, London 1996 nonché S. Harasym, ed., The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, Routledge, London 1996. Tra gli altri in italiano di Spivak sono da ricordare due saggi di grande interesse: Re-immaginare il pianeta, <<aut aut>>, 312, novembre-dicembre 2002, p. 78 e Raddrizzare i torti, in Nicholas Owen (a cura di), Troppo umano. La giustizia nell’era della globalizzazione, Milano, Mondadori, 2005, p. 193. Ma di Spivak è da vedere, in B. Ashcroft, G. Griffiths, H. Tiffin, The post-colonial studies reader, Routledge, London 1995, il saggio famoso quanto discutibile, Can the Subaltern Speak? (pp. 24 - 28), sul quale è ritornata in The New Subaltern: a Silent Interview, in V. Chaturvedi, cit. pp. 324-340.

[7] Le due autrici sono molto note e impegnate in grandi battaglie civili. Di Vandana Shiva ci limiteremo a ricordare Le guerre dell’acqua e Il bene comune della Terra (Feltrinelli, Milano 2004 e 2006); di Arundhati Roy ricorderemo Il dio delle piccole cose e Guida all’impero per la gente comune, Guanda, Parma 1997 e 2003.

[8] Tra questi autori, e in relazione all’America Latina, non si può non ricordare almeno B. de Sousa Santos, A crítica da razão indolente: contra o desperdício da experiência, Ediçoes Afrontamento, Porto 2000.

[9] Il riferimento obbligato è a Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.

[10] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Guanda, Parma 1995.

[11] Su questo punto mi permetto di rinviare a quanto detto nella Prefazione all’edizione del 2005 de Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari, pp. XV-XXII:

[12] B. Viola, Hatsu-Yume. First Dream, Bill Viola and Kira Perow Mori Art Museum, Japan 2006. Su Viola si veda anche C. Townsend, (a cura di) L’arte di Bill Viola, Bruno Mondadori, Milano 2005.

[13] A. Koestler, L’atto della creazione, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1975, p. 22.

[14] Si pensi in primo luogo a D. De Masi, di cui ricordiamo tra l’altro Il futuro del lavoro: fatica ed ozio nella società postindustriale, Rizzoli, Milano 1999; Ozio creativo. Conversazione con M. S. Panieri, Rizzoli, Milano 2000; La fantasia e la concretezza: creatività individuale e di gruppo, Rizzoli, Milano 2003.

[15] Mi sembra che nella stessa direzione vada una fulminante battuta dello stesso De Masi su una recente baruffa tra due parlamentari campane del PDL: “I napoletani non nascono, debuttano”. In altri termini in una grande capitale del Mezzogiorno la società dello spettacolo è nata molto prima che Guy Debord lanciasse con il suo saggio un’espressione diventata famosa.

[16] E’ impossibile non ricordare le pagine commosse dedicate da Rea alla fine dell’Italsider di Bagnoli, che culminano nel giorno della cerimonia della chiusura dello stabilimento, accompagnata dalle note dall’Internazionale suonate dal sassofono di Daniele Sepe, E. Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano 2002, pp. 339-342.

[17] Ivi, p. 83.


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