Dilettante

Cesare Pietroiusti

TESTO

IMMAGINI

“Questa erosione e derisione del singolare o dello straordinario, era stata annunciata da L’uomo senza qualità: ‘Forse è precisamente l’uomo comune che presente l’avvento di un immane eroismo collettivo da formicaio?” In verità, l’avvento di questa società di formiche è iniziato con le masse, le prime intrappolate nel reticolo delle razionalità livellatrici. Poi il flusso si è ingrossato e ha raggiunto i quadri che dominavano l’apparato, dirigenti e tecnici assorbiti nel sistema che gestivano, per sommergere infine le professioni liberali che sembravano protette, e le anime belle letterarie e artistiche. Nelle sue acque scorrono e si disperdono le opere, isole un tempo affioranti, tramutate oggi in gocce d’acqua nel mare, o in metafore di una disseminazione del linguaggio che non ha più autore ma diviene il discorso o la citazione indefinita dell’altro” (1)
 
Dire che l’artista non si identifica più con nessuna tecnica né con alcuna definizione disciplinare è, in parte, una ovvietà. Se si pensa ai festival Fluxus, alla intenzione, che era già in Cage e nelle performance “miste” (musica-danza-pittura ecc.) del Black Mountain College dei primi anni ’50, e al concetto stesso di “happening”, ci si rende conto che per molta ricerca artistica del XX secolo la posizione critica nei confronti di discipline, tecniche, e del professionismo in generale, è importante ed acquisita. Il tutto, ovviamente, sulla scia delle molteplicità dell’interventismo futurista nonché della negazione-senza-riserve del gesto e della parola dada.
Molti artisti, nonostante i tentativi oscurantisti degli anni ‘80, fortissimi ovunque ma forse in Italia più che altrove, sono in questa scia, ne rispettano e ne studiano i punti di riferimento, le teorie, le opere.
E’ però impossibile pensare che il recente sviluppo di Internet (motori di ricerca e posta elettronica inclusi) non abbia determinato e non stia determinando delle novità e delle trasformazioni di quella cosa che Foucault chiamava “episteme”, il sistema collettivo dei saperi e dei poteri nei quali una comunità ormai planetaria (ovviamente parlo della parte privilegiata e ricca del pianeta) si riconosce.
E’ frequente, ormai, che una persona affetta da una certa malattia arrivi, grazie ai blog, alle chat-line, ai siti dedicati ecc., a saperne di più del suo medico e a diventare lei (la persona malata) agente di formazione rispetto allo specialista che ce l’ha in cura. E’ piuttosto facile, per esempio per uno studente che scrive una tesi (ma anche per me che scrivo questo testo), riuscire a trovare, su un certo argomento, i riferimenti e le citazioni “giuste”, anche da autori e da discipline che lui (lo studente) non ha mai studiato, e che non sarebbe mai riuscito a trovare facendo ricerca in biblioteca. Per improvvisarsi – temporaneamente ma istantaneamente – esperto di antropologia, biologia, o magari fisica nucleare, basta sapere usare con un minimo di spregiudicatezza il meccanismo delle parole-chiave.
Esisteva, nel XX secolo, la figura dell’intellettuale “ad ampio spettro”, capace di fare una critica politica e insieme un’analisi dell’inconscio, di seguire lo sviluppo storico dei comportamenti sessuali o della letteratura (o tutte e due le cose insieme) con gli strumenti sia dell’archeologo che dello psicoanalista, sia dello storico dell’arte che del biologo molecolare. Era, probabilmente, l’evoluzione del filosofo dopo Nietzsche e la crisi dei fondamenti, ma era anche l’effetto dell’esplosione delle scienze umane (Freud e Levi-Strauss in primis) e del loro impatto sulla storia del pensiero: penso a personaggi come, per l’appunto, Deleuze, Guattari, Foucault, Bateson, e poi Julia Kristeva, De Certeau, lo stesso Lacan ecc.
Questo personaggio di confine, anzi dai molteplici confini, da tipica figura rappresentante dell’élite che era, è diventato (sta diventando) una figura di massa, una possibilità accessibile ad alcuni milioni di persone.
Tale situazione era già stata descritta in modo quasi profetico da Michel de Certeau:
 
“Lentamente, i rappresentanti che simbolizzavano ieri famiglie, gruppi e ordini, escono dalla scena in cui regnavano al tempo del nome. E’ l’avvento del numero, quello della democrazia, della grande città, delle amministrazioni, della cibernetica. E’ il flusso continuo della folla, tessuto fitto come una stoffa senza strappi né rammendi, composta da una moltitudine di eroi quantificati che prendono nome e volto divenendo il linguaggio mobile di calcoli e di razionalità che non appartengono a nessuno” (2)
 
Un simile scenario è anche delineato da Paolo Virno, come quello che definisce la società post-fordista, nella quale la produzione culturale ha preso il posto delle varie altre forme di azione umana: la produzione materiale (poiesis), l’attività politica (praxis), e la riflessione teorica (filosofia). Una società nella quale:
 
“… il modello fondamentale… è l’attività del locutore. Non si tratta dell’attività di un locutore informato ed erudito, ma di qualunque locutore” (3)
 
Cosa c’entra, in questo discorso, l’artista?
Il paziente diabetico che accede quotidianamente a blog e chat line dedicati, sa tutto sulle nuove forme di trattamento della sua patologia, ma sa soltanto quello, perché è quello che, per ovvi motivi, gli interessa. Lo studente in letteratura che compila la tesi di laurea diventa esperto di psicoanalisi solo a tempo definito e soltanto, in genere, nei limiti di una indicazione bibliografica.
Io credo che l’artista contemporaneo sia (e stia diventando sempre di più) la figura sociale che, della possibilità e dell’accessibilità di cui ho parlato finora, fa una pratica. Lo fa considerando ogni campo disciplinare e ogni argomento trattabile come entità di sapere qualunque (mentre per il diabetico i blog sul diabete rivestono interesse specifico), spazi di azione intercambiabili. Lo fa, inoltre, superando i limiti dello studio teorico e dell’accumulazione di dati (come farebbe invece lo studente), per dare alla sua pratica un valore di esperienza intra-soggettiva tanto quanto relazionale. L’artista è la figura sociale che paradossalmente definisce (stria) il proprio lavoro nello spazio intermedio (liscio) fra le discipline, nell’attraversamento o nell’invasione di campi diversi. E’ anche colui il quale può riunire attorno ad un certo progetto specialisti di diversi settori, non solo riuscendo a sommare i loro contributi ma anche, a volte, creando una situazione nella quale ciascuno può vedere il proprio campo di intervento per così dire dall’esterno, secondo una logica extradisciplinare o addirittura “non funzionale”.
Nel tempo delle ipertrofie tecnologiche, della diffusione di macchine sempre più capaci, affidabili e spesso anche facili da usare (si pensi al video), l’artista contemporaneo è, inoltre, la figura sociale che riesce a subordinare anche il mezzo più potente alla logica del suo progetto, quindi a stabilire, con il mezzo (con la tecnica, in generale) una relazione strumentale.
Ecco perché, all’interno della mia ipotesi, se l’artista non-sa-fare-niente, se non è “esperto” di alcuna tecnica particolare, è meglio, perché così avrà una minore tendenza a (o tentazione di) cadere nel virtuosismo, nell’ipnosi degli effetti speciali e nella dimostrazione dei “muscoli tecnologici” del mezzo. E’ evidente che Bill Viola, tanto per fare un esempio, non rientra nella categoria di artista definita da questa ipotesi.
Per riassumere, l’artista contemporaneo è il perfetto dilettante: colui (o colei) che non sa fare niente, ma si attribuisce la potenzialità di fare tutto, attraversando (o usando in modo non funzionale) le diverse discipline, facendo interagire e facendo lavorare in modo inusuale gli specialisti, e utilizzando strumentalmente le tecnologie.
 
 
(1)    Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizione Lavoro, Roma 2001 (traduzione di Mario Baccianini dalla versione francese L’invention du quotidian - 1.Arts de faire, Union générale d’éditions, Paris 1980), p. 27.
(2)   Michel De Certeau, ibidem, p. 25.
(3)   Paolo Virno, Grammatica della moltitudine, Rubbettino, Cosenza 2001. 
 
Questo testo è parte di un saggio più ampio pubblicato con il titolo “L’agente dello spostamento” in Public Art, a cura di Maria Campitelli, Silvana Editoriale, Milano 2008, pp. 28-39
 

 


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