Quali funzioni possono avere i programmi di formazione legati alle grandi mostre e all’attività dei musei?
Non si può fare un discorso generale, però la funzione è prima di tutto quella di avvicinare più persone all’arte. Si possono usare l’arte e le mostre come un serbatoio di elementi che possano aumentare il senso critico delle persone, usare la loro potenzialità nella costruzione di un senso civico.
E questo non accade già spontaneamente grazie all’arte?
No, non necessariamente. L’apparato educativo attorno alle mostre è costituito da varie cose: testi sul muro, cataloghi, brochure, audio guide ecc. Consideriamo le visite guidate e i laboratori fatti attorno e parallelamente alle mostre, per bambini o altri gruppi specifici (studenti liceali oppure anziani o altri): si identificano queste sotto-categorie nel pubblico generale e si creano dei percorsi specifici per ciascuna di esse. Questo tipo di iniziative è cresciuto moltissimo negli ultimi vent’anni; proprio quando le scuole o le università sembrano essere diventate meno efficaci, allora si pensa che i musei possano essere spazi più adeguati per questi percorsi formativi.
Documenta 12, per esempio, ha fatto molto per sviluppare programmi educativi sperimentali basati anche sull’idea che tali programmi servano a trasformare non il pubblico ma l’istituzione stessa che si avvicina al pubblico, nonché sull’idea che il pubblico possa diventare educatore di se stesso. Il pubblico che prende in mano la mostra…
Un’idea di emancipazione del pubblico basata su un indebolimento della funzione dell’istituzione?
Sì, un indebolimento dell’autorità dell’istituzione, attuato dando il programma educativo in mano al pubblico. Questo desiderio di trasformazione dell’istituzione messo in atto da Documenta 12 diventava una specie di training di gruppi di pubblico, che poi guidavano altro pubblico e così via.
Personalmente non amo la parola “educazione” perché ha la stessa radice di “duce”. Abolirei il termine “education” e lascerei solo il termine “public programs”; toglierei l’aspetto scolastico, insomma. Un “programma pubblico” dovrebbe avere non tanto la funzione di educare, quanto quella di ampliare.
Ma occorre anche riconoscere che i programmi educativi possono nascondere il tentativo autoritario di indebolire l’autonomia dell’arte, la sua assoluta inutilità e di normalizzarla inserendola in un sistema produttivo sociale. Quindi da una parte ci sono gli artisti che diventano “activist”, che fanno progetti utili (a una comunità, a una qualche rivendicazione ecc.), dall’altra ci sono i politici, i “boards” dei musei, gli sponsor, che pensano che bisogna togliere l’arte dalla sua inutilità, che la bellezza debba essere dedicata a qualcosa di utile, debba essere funzionale a qualcosa.
Poi c’è il problema del “coinvolgimento del pubblico” – e questa è una cosa che riguarda l’arte contemporanea e non altri tipi di musei – che spesso diventa una sorta di partecipazione forzata. Una partecipazione che è tipica dell’epoca di facebook e di internet partecipativo. Dell’epoca dei blogs in cui devi dire sempre la tua. Tutto ciò toglie libertà, facendo diventare la partecipazione una “necessità”.
Forse vorrei tornare a programmi di tipo classico, un po’ all’antica, tipo proprio corsi di storia dell’arte. Cose di altissimo livello...
Quindi vedi due forzature: quella di dovere necessariamente dare un’utilità socialmente riconoscibile all’arte, addirittura inserendola in un contesto produttivo, e quella di forzare il pubblico ad una risposta, a un “feedback”.
Sì, mi pare che l’idea di una contemplazione passiva sia un po’ passata. E come mai non si può contemplare passivamente un’opera d’arte? Perché ci vuole sempre un wall text, una guida, qualcuno che ti dice quello che devi sentire, come devi godere ecc.
Sono un po’ sospettosa nei confronti di quegli approcci che cercano di dare in anticipo i criteri di interpretazione e di godimento dell’opera. Non sono contraria al 100%. E’ una questione di equilibrio. Però in generale mi sembra ci sia poco silenzio, nel mondo. Ci sono troppe parole, nel mondo, e attorno all’arte.
Rapporti tra i team curatoriali e quelli educativi?
Un buon esempio è quello dei curatori che direttamente intervengono ideando progetti basati sulla partecipazione del pubblico; Obrist alla Serpentine, per esempio, ha quasi sostituito il dipartimento curatoriale con quello educativo facendo invece delle mostre, conferenze, maratone, “public programs”. L’intervento dei curatori di solito migliora la qualità dei programmi “educativi” rispetto al caso in cui se ne occupano soltanto gli “specialisti” dell’educazione.
Il rischio, però, è che questo provochi un’ulteriore accentuazione del potere dei curatori: ciò che toglie un po’ la voce agli artisti e rischia di dare alla testa ai curatori.
La funzione degli artisti nei “public programs”?
I migliori programmi sono quelli ideati o realizzati dagli artisti. Per esempio un artista che fa le visite guidate alla mostra, o che parla del lavoro di un altro artista, o che inventa forme immaginarie di visite. Questo potrebbe essere più interessante, e anche piacere di più al pubblico, rispetto alla visita di una guida ufficiale – penso a Dora Garcia che faceva fare a dei finti custodi le visite guidate alla Tate facendo delle cose anche un po’ assurde, tipo parlare di De Chirico, oppure le tue visite nei locali di servizio e sui tetti della Serpentine nel 1992. Gli artisti possono anche dire stupidaggini, ma non ripetono le cose che stanno scritte sui libri di testo. Inventano cose che servono a pensare in modo diverso, a sentire in modo diverso.
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