Intervista a Francesco Moschini

Antonella Marino

È stato appena nominato segretario generale dell’Accademia nazionale di San Luca: come pensa di portare avanti questo prestigioso incarico?
Per cominciare vorrei spiegare cos’è l’Accademia nazionale di San Luca. In Italia ci sono tre accademie che in qualche modo fanno riferimento al presidente della Repubblica: L’Accademia dei Lincei per le scienze, l’Accademia di Santa Cecilia per le arti musicali e coreutiche e l’Accademia di San Luca preposta alle arti del disegno, scultura e architettura. L’Accademia di San Luca nasce alla fine del Cinquecento, fondata da Gerolamo Muziano e Federico Zuccari. Dal Cinquecento al Novecento ha sempre avuto il compito di promuovere le arti. Nel Novecento, quando è diventato più cogente il fenomeno del mercato dell’arte, è stato più difficile per l’accademia portare avanti i propri impegni statutari. Infatti dal Cinquecento in poi tutti gli accademici dovevano fare dei doni, di disegni, progetti, o sculture, che diventassero patrimonio dell’accademia stessa. Questa abitudine è andata scomparendo nel Novecento. Si pensi che sono stati accademici di San Luca artisti come De Chirico, Giacometti e Savinio, e di loro non è rimasta alcuna traccia se non le lettere di ringraziamento. Mentre si trovano sculture di Thorvaldsen o di Canova, quadri del Canaletto ecc, non c’è niente dei maestri del Novecento. Probabilmente in quel periodo gli accademici non sono stati sollecitati a rispettare le leggi interne non scritte che si erano tramandate per secoli. Solo da pochi anni si è ripresa questa consuetudine: io stesso, chiamato tempo fa a ideare per l’Accademia una mostra, ho proposto il tema della donazione. Così molti – da Kounellis a Gabetti & Isola – sono tornati a donare opere che sono state raccolte in un catalogo.
 
Quali sono i compiti del segretario generale?
Il segretario generale è colui che ha in mano le sorti dell’accademia. La carica dura cinque anni e spero che mi permetta operazioni di grande rilievo. Per adesso la situazione è quella di “risvegliare i broccati”, per citare una frase presa da una lettera di Piero Dorazio. Dal 1932 l’accademia ha sede in un palazzo di Borromini molto bello, Palazzo Carpegna, vicino alla Fontana di Trevi. I diversi concorsi banditi dal Seicento in poi, al di là dei doni, hanno permesso di raccogliere al suo interno progetti, pitture e sculture di enorme valore. Un’area intera è dedicata alla pinacoteca, che è stata recentemente risistemata e riconfigurata con standard internazionali da Francesco Cellini. C’è anche una ricca biblioteca, sia storica che contemporanea. Sono strutture di fruizione cittadina a cui tutti possono accedere. La sensazione però è che finora si sia tenuto questo straordinario palazzo con le sue collezioni in una dimensione ovattata, come una turris eburnea, chiusa alla città. Io vorrei impegnarmi affinché l’accademia torni ad avere quel ruolo a livello nazionale e internazionale che era da un po’ in un cono d’ombra.
 
Ha già pensato a delle iniziative precise?
Prima di tutto è necessario conoscere bene la macchina, che è molto complessa. Ultimamente sono state fatte due piccole mostre l’anno – come quella dell’architetto Luigi Moretti in contemporanea con la rassegna del Maxxi – ma è troppo poco rispetto al materiale strepitoso che l’accademia possiede. Bisogna trovare il modo per comunicare all’esterno la presenza di questi materiali, di questo archivio immane, di questa eccezionale pinacoteca. Qualche progetto l’ho già in mente. Per esempio vorrei segnalare alcune cose straordinarie, come un quadro importantissimo e di grandi dimensioni di Guido Reni, un’opera della parte terminale del suo percorso artistico che mi piacerebbe proporre all’attenzione del pubblico anche internazionale. L’idea è di usare la formula dell’arte che guarda la storia dell’arte: prendere un’opera dalla collezione e chiedere ad artisti contemporanei, come Giulio Paolini o Michelangelo Pistoletto, di leggerla.
 
Contestualmente al nuovo incarico ha deciso di lasciare la direzione della sua storica galleria romana “AAM Architettura Arte Moderna”. Qual è il bilancio di questa esperienza?
Dal punto di vista culturale il bilancio per me è straordinario. Ho iniziato nel 1978 con l’idea di uno sguardo incrociato tra arti visive, architettura, fotografia e design. Su questa linea furono organizzati i famosi  “Duetti”, che mettevano in sintonia linguaggi diversi attraverso il confronto tra due autori: ad esempio Giulio Paolini con Dardi, Enzo Cucchi con Dario Passi, Ettore Sottsass con Alighiero Boetti, Alessandro Mendini con Luigi Ontani… Non mi interessava trovare corrispondenze di carattere stilistico o formale, quanto piuttosto evidenziare leggi segrete, sotterranee che ispirassero i lavori dei personaggi. E insieme attraversare linguaggi diversi, come la fotografia: feci io la prima mostra di Gabriele Basilico ispirata ai ritratti di fabbriche, riproposta a distanza di trent’anni allo Spazio Oberdan di Milano.
Per scelta programmatica la galleria non aveva motivazioni speculative, faceva mostre per il piacere di mostrare, con il criterio del lavoro in pura perdita. C’è un libro bellissimo, Il fiume Alfeo di Roger Caillois, in cui si capisce molto bene il senso del piacere del lavoro in pura perdita. Per quasi trent’anni io ho fatto questo lavoro. Di recente, anche per gli impegni che aumentavano, ho cominciato a lasciare la galleria nelle mani del mio socio, Gabriel Vaduva, che ne ha cambiato l’aspetto innestando un’attenzione imprenditoriale a un sano rapporto col mercato. Ora la galleria deve marciare autonomamente, a partire dalla storia che io ho contribuito a far crescere. Si avvarrà comunque della mia consulenza esterna.
 
Lei è anche ordinario di Storia dell’architettura e Storia dell’arte al Politecnico di Bari. Com’è il suo rapporto con questa città?
Sono diventato professore di ruolo al Politecnico di Bari 22 anni fa. Dopo tre anni di straordinariato in genere si tende a rientrare nella propria sede. Io invece non ho mai avuto il retropensiero di tornare a Roma o a Brescia, che è la mia città. Mi sono trovato talmente bene qui, che ho deciso che quello era il mio posto. Con la Puglia ho un rapporto bellissimo. Non per costruzioni amicali o vischiosità clientelari, ma soprattutto perché gli studenti sono eccezionali, credono ancora in una relazione pedagogica con il docente. Il rapporto con loro a  Bari è stato sin dal primo giorno di grande tensione e attenzione. Credo che quello che ho saputo trasmettere agli studenti, cioè la curiosità di non fermarsi mai e l’azzardo di lanciare sempre oltre le proprie aspettative, mi abbia dato soddisfazione proprio per una scelta culturale legata alla Puglia, che ritengo una delle regioni più belle al mondo, insieme alla Sardegna e alla Sicilia.
 
Qualche esperienza significativa?
Anche a Bari ho avviato un lavoro di contaminazione culturale. Agli studenti ho fatto fare incontri con artisti, quali Marco Tirelli o Stefano Di Stasio Ma soprattutto ho portato fotografi come Olivo Barbieri o Gabriele Basilico. Ho capito infatti che la Puglia era un territorio di grande humus nei confronti della fotografia, per un dna implicito. Basti ricordare la famosa mostra Viaggio in Italia alla metà degli anni ottanta, curata da Luigi Ghirri e Gianni Leone, che ha riportato la fotografia alla sua vocazione di rilettura del paesaggio e del territorio. Fu la prima mostra forse in Italia a proporre il rapporto tra fotografia, paesaggio e luogo. Quindi nessun’altra regione poteva rivendicare questa sorta di primazia. Io credo di averlo fatto anche spingendo gli autori locali, come Carlo Garzia, Gianni Celati e tanti anni, a presentare la propria poetica ai miei studenti. All’inizio poteva essere guardata con sospetto questa intrusione del modo della fotografia e dell’arte in un Politecnico molto segnato dalla dimensione ingegneristica. Ho scoperto invece che ciò ha dato grandi frutti, tant’è che questa cosa si è andata sempre più allargando e adesso continua con altre personalità.
 
Restando a Bari, è favorevole alla destinazione del Teatro Margherita come centro d’arte contemporanea?
Secondo me una questione molto delicata, su cui va sollecitata l’attenzione, è Il dialogo tra passato e presente. Nessun’altra regione ha la possibilità di coinvolgere luoghi antichi come la Puglia. Il Margherita da questo punto di vista è uno dei tanti possibili contenitori. Credo sia un luogo straordinario per la sua capacità evocativa. Dal punto di vista del consolidamento strutturale, al suo interno sono state fatte anche delle operazioni di grande imbarazzo. Però, al di là di questi elementi di disturbo per un consolidamento fatto con una certa brutalità, resta sempre un edificio di grande disponibilità per il contemporaneo. Non so se debba essere questo soltanto o se si debbano ricercare più situazioni, più luoghi, perché dal punto di vista museale qualche problematica il teatro la presenta. Più che come luogo di permanente conservazione di opere, credo  si presti meglio per esposizioni di breve durata.
 
E delle iniziative che di recente stanno animando il dibattito sull’arte contemporanea a Bari, come il Premio Lum, cosa ne pensa?
Sono convinto che sia da seguire con attenzione qualsiasi tentativo di dar corso a una presenza del contemporaneo, connaturata ancora una volta al contesto pugliese. Penso al ruolo che hanno svolto Pietro Marino, Marilena Bonomo, a certe edizioni di Expo Arte. Qualsiasi nuova operazione non può che essere supportata e suffragata dalla dimensione genealogica di quello che è stato fatto finora. Vanno dunque affiancate, caldeggiate e aiutate a crescere tutte le iniziative che possono porre il problema della contemporaneità, che è giusto per Bari e per la Puglia, come è giusto per il Paese.
In particolare del Premio Lum l’aspetto che più mi piace è il suo non essere disponibile a incrostazioni. Se c’è una cosa che nel sistema-paese porta sempre a degenerazione è l’incistamento di situazioni finalizzate a  costruire caste gelosissime. Il fatto che in ogni edizione venga cambiato tutto, mi porta a ritenere che sarà salvaguardato il principio libertario di ampliamento dei riferimenti e delle voci, e che quindi non sarà possibile costruirsi un coro in cui sia difficile cantare “fuori dal coro”. Un primo elemento positivo è proprio questa discontinuità nella continuità.

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Francesco Moschini

(ph. M. Falcone)

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