Intervista a Franco Cassano

Antonella Marino

Il convegno promosso dalla LUM intende affrontare il tema del Mezzogiorno nella sua più ampia dimensione di cultura. Parte da una nozione di Sud non come specifico luogo geografico ma come “territorio mentale”, modalità di pensiero, dimensione resistente all’interno di un più vasto ed egemonico sistema culturale. In particolare la prima sessione nella quale lei è impegnato è chiamata a discutere su una “idea di Sud” nella quale si possono riconoscere “esperienze di popoli di tutto il mondo”.  Le pare un approccio culturalmente corretto alla comprensione del fenomeno italiano? Oppure ogni Sud ha una sua specificità, una sua storia problematica non comparabile ad altre situazioni del mondo globale? Possiamo ridurre  la questione ai termini generali dei rapporti fra centri e periferie?

Tra i tanti sud esistono elementi di continuità ma esistono differenze. Sarebbe grave sia enfatizzare l’unità, sia enfatizzare le diversità.. Valorizzare la dimensione comune significa soprattutto non accettare la riduzione del sud ad una serie di valori che vengono percepiti per differenza. Non considerare il sud come un “non ancora” nord. Cioè relegarlo nella categoria dell’arretratezza, per cui la specificità diventa un insieme di patologie, di ostacoli, di handicap al raggiungimento di un modello che si è identificato col nord. Un elemento di continuità consiste  proprio nel mettere in discussione il centro e alcune caratteristiche, qualità e virtù, che il centro si autoattribuisce guardando tutto ciò che è lontano e fuori da sé, nella migliore delle ipotesi, come gradini che progressivamente porteranno a raggiungere il proprio modello. Questo è sicuramente un aspetto comune, ma va coniugato in modi diversi, perché diverse sono le situazioni. Valorizzare alcuni elementi di differenza del sud significa anche prendere lo slancio da alcune sue caratteristiche, e ha a che fare soprattutto con l’idea che lo sviluppo a cui si pensa non può essere mimetico di quello del nord.
 
Fra i vari nodi, emerge nella sua riflessione proprio  la questione della “autonomia” del Sud, sia come “pensiero” che come “azione”. Non mi riferisco tanto alle dimensioni storiche in chiave di polemica-opposizione, quanto alle ipotesi e proposte in chiave di elaborazione critica e di progettualità. Ce ne può parlare?
 
Per me il problema è proprio di capire che esiste un’autonomia, una differenza specifica, pur senza volerla cristallizzare né tantomeno  rovesciare in virtù quelli che vengono mediamente considerati i vizi del Sud. Non si tratta di passare da un’idea del sud come inferno al paradiso o a quella oscillazione tra inferno mafioso o paradiso turistico, che sono le due immagini ancora oggi dominanti. In questa  rappresentazione sfuggono una serie di dimensioni importanti che bisogna recuperare, ma per difenderle bisogna anche essere capaci di non farle confondere. E’ un percorso duro, impegnativo. L’autonomia richiede maturità e capacità di combattere i propri vizi. Perché altrimenti sembra quasi un gioco di prestigio assolutorio, nel quale tutto immediatamente si rovescia. C’è invece bisogno di un intervento critico, analitico, da parte di chi al sud lavora. Questo è già un ruolo specifico (se la parola non appare troppo obsoleta) dell’intellettuale meridionale e delle classi dirigenti. Bisogna pensare ad un percorso diverso, che non è mimetico, in ritardo, e quindi per certi versi utopistico. Nel caso del sud italiano diventa importante un collegamento con altri sud e col tema del Mediterraneo. Il centro ha una serie di vantaggi e una forza che è difficile rimontare. Questo vuol dire che chi è forte tira di più e naturalmente la forbice si allarga. Un parametro significativo è quello delle infrastrutture: il nord è collegato all’Europa, con treni, aerei. Noi invece per andare in qualsiasi parte dobbiamo spesso passare da Roma. Ci vorrebbero risorse molto forti per ridurre questo scarto. Da questo punto di vista una connessione tra diversi sud è uno degli elementi essenziali.
 
Questo problema rimanda alla definizione dei rapporti e dei confronti tra Mezzogiorno d’Italia ed Europa, nell’ambito del sistema Occidente. In fondo lungo questi “meridiani” si è sviluppato il suo percorso critico, da Il pensiero meridiano alla metà degli anni Novanta al recente Tre modi di vedere il Sud. Da allora a oggi, sono mutate le condizioni e le prospettive della sua riflessione? 
 
Sicuramente le cose sono cambiate per molti aspetti, anche perché c’è stato uno scarto tra l’idea e la proposta e le politiche concrete. Il problema è che è rimasta una sfasatura tra questi discorsi e la pratica. Anzi, l’11 settembre del 2001 segna il momento nel quale le due sponde si allontanano. In questo quadro si sono affermate quelle forze secessioniste che vedono gli aiuti al sud come dissipazione. Ed è una linea ancora oggi dominante. Non è una questione limitata solo al federalismo della Lega. Non bisogna dimenticare che c’è un rapporto tra la Lega e una parte della borghesia del nord. Questo è l’elemento di difficoltà.
 
Probabilmente a un approccio propositivo al problema punta la seconda sessione del convegno, che per il titolo si è appropriata della sua nozione di “localismo virtuoso”. In verità, lei scrive chiaramente che il “localismo virtuoso” non basta: occorre elaborare un percorso più complesso, una “terza via”.

Quello che io chiamo localismo virtuoso è stato nella migliore dell’ipotesi una risposta all’idea che il Sud deve fare da solo e si deve arrangiare.. Questo modello ha dimostrato i suoi limiti. E’ l’altra faccia della medaglia dell’egemonia di una lettura liberistica, per cui gli interventi di aiuto al Mezzogiorno hanno strozzato l’imprenditorialità, impedendogli di cavarsela da solo... C’è un elemento di verità in questo, ma è una verità parziale... Io invece ho sempre pensato che un progetto innovatore richiedesse un reticolo di relazioni, la costruzione di un contesto. Non con risorse a pioggia, ma puntando su alcuni elementi importanti, decisivi. 
 
Quanto spazio e quanto peso ha, nella sua visione del Sud, la dimensione dell’immaginario, cioè tutta l’area di esperienze culturali che attingono ai linguaggi della creatività (compresa l’arte che a noi sta a cuore, ovviamente)? E soprattutto: può la produzione di immaginario uscire dalla nicchia dell’utopia, non ridursi a nobile ma impotente testimonianza, o inascoltata profezia?
 
Su questo piano io sarei sobrio e prudente. Ricostruire un percorso autonomo, in cui anche l’immaginario è importante, è un’operazione che bisogna riuscire a fare evitando in primo luogo il rischio della deriva retorica. Ma anche la tentazione di impostare il discorso solo come  costruzione  intellettuale, in un’ area che non si lascia circoscrivere in tante direzioni. Nel momento in cui dobbiamo incrociare questo tema  dell’immaginario, io rimango su un punto: difendere alcuni elementi d’importanza del sud presuppone di avere da dire alcune cose importanti sul mondo. Nell’immaginario del sud bisogna cioè riuscire a trovare cose che interessino tutti, scovare qualcosa che abita altre aree a nord del pianeta... A suo tempo cercai di sottolineare ad esempio il valore della lentezza. Ci furono ortodossi fondamentalisti che identificarono lentezza e arretratezza. In realtà questa non è una cosa il cui sapore si capisce solo parlando dal sud. Ma ci sono tanti riferimenti, da Milan Kundera al cinema.
Il discorso sulla lentezza riguarda alcuni modelli dominanti della cultura produttiva. Un elemento unificante è certamente la resistenza alla frantumazione e il tentativo di condurre dentro una misura un mondo dominato dal superamento continuo dei limiti, da una ricerca esasperata del “nuovo”: un aspetto della modernità che adesso si è scatenato e non ha più contrappesi altrove. Questo è un terreno reale su cui il sud si  può esercitare: definendo una nozione di esperienza più ricca, in cui  possono stare insieme l’elemento della discussione, la ricchezza delle relazioni… È fondamentalmente un’idea di mondo non colonizzato dalla ossessione del produrre. C’è dunque la necessità di un rapporto  dialettico tra il mantenere la propria specificità e nello stesso tempo cercare di comunicare agli altri. Però è un lavoro complicato, un compito che coinvolge le classi dirigenti. Perché bisogna operare in maniera selettiva su quello che sei, introdurre elementi di discontinuità nella tua storia e nella tua tradizione per poterla portare in avanti. La cosa bella è la pluralità delle voci, la non irriducibilità a una semplice immagine...  Penso che il sud abbia qualcosa da dire al mondo.
 
E nel Sud ha qualcosa da dire la Puglia? C’è, o si può immaginare, una “via pugliese”?
 
Certamente  la Puglia è una regione diversa dalle altre. Questa differenza è cominciata prima di Vendola. E’ un fenomeno che è nato già nella seconda metà degli anni novanta, quando si usciva da una vecchia fase delle ideologie e in qualche modo si  riscopriva il territorio, l’area nella quale si viveva.  Ricordo la nascita a Bari dell’associazione “Città plurale”. Penso anche alla collanina “Mal di levante” di Laterza: rivelava alcune figure intellettuali di vocazione non localista, per un’analisi della città come esercizio di patriottismo critico. Allora cominciavano a esserci fenomeni di discontinuità con i partiti, di creatività nuova nel cinema, nella letteratura. Questo è un elemento di differenza rilevante,  un segnale di  vitalità. Contribuiva  il fatto che alla fine degli anni ottanta-primi novanta la magistratura era riuscita a tenere sotto il livello di guardia la presenza delle forze mafiose. Al’inizio “l’onda Emiliano” si valse di quella spinta e nella sua giunta ci furono elementi di discontinuità che portarono ad esempio all’abbattimento di Punta Perotti. Ora  la battaglia è diventata molto complicata, con rischi di passi indietro. 
Vendola, che è una figura intellettuale più complessa, è stato molto più capace di rappresentare questo percorso, con maggiore sensibilità per la dimensione della creatività. C’è però il limite di puntare troppo sul carisma personale. Io ho sempre combattuto l’idea che coloro che raggiungono la capacità di rappresentare queste cose debbano poi patrimonializzarla dicendo “c’est moi”. Bisogna invece sostenere l’idea  di un gioco complesso con più soggetti. Con la sua prima giunta, grazie a una storia relativamente atipica, Vendola ha comunque consentito un’autonomia rispetto a interessi forti, o alle terribili abitudini distruttive che c’erano prima… Anche l’esperienza delle “fabbriche di Nichi” è  significativa, purché sia chiaro che non esaurisce il campo. La cosa più interessante è che Vendola è riuscito a mettere insieme alcuni elementi di innovazione nella politica di governo. In qualche modo è riuscito a combinare culture che normalmente vanno in ordine sparso. Questa formula potrebbe espandersi, anche se in questa fase politica sembra che lui sia più attento alla storia della sinistra che non a dare una risposta complessiva al paese. Vedremo.
 
Ma in questo rapporto problematico che si è instaurato in Puglia tra figure a vocazione carismatica e la complessità delle esigenze nuove è possibile individuare un percorso praticabile che indichi una “linea generale”?
 
Nella dimensione pugliese è possibile occupare uno spazio di futuro, anche attingendo a elaborazioni precedenti. Non si può pensare però  di salvarsi da soli. Bisogna avere, appunto, un’idea generale del sud. Il rischio per la Puglia è di considerarsi “la più bella del reame”, cioè di ritenere che “noi siamo migliori”. Non si può pensare che una prospettiva di questo tipo, per quanto fondata su elementi di realtà, possa  passare. Bisogna preoccuparsi di tutto ciò che ci circonda. Anche ad esempio della questione Napoli. Napoli è una grande capitale, un patrimonio culturale dell’umanità che alimenta un immaginario collettivo. Ma come possiamo riportarla nell’agenda della politica nazionale? Questo è uno dei grandi problemi del Mezzogiorno, che richiederebbe una soggettività politica forte, mentre ognuno pensa a sé. Un’esperienza esemplare ci viene proprio dalla nostra storia recente. Un elemento di discontinuità e di apertura è stato l’arrivo a Bari della nave Vlora, col suo immane carico di clandestini dall’Albania, nel 1991. Scoprire i vicini, incontrare un altro pezzo di mondo che doveva essere tuo, ha fatto allargare orizzonti, ha suscitato anche creatività. Questo rapporto con l’altra sponda adriatica è un patrimonio prezioso. Bisogna evitare di dilapidarlo: perché quella vicenda ci avverte che è finita la vecchia storia. E’ cominciata una nuova storia, dobbiamo giocare  una nuova  partita.
 
 
 

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