Qual è la tua definizione di "arte pubblica"?
Arte in spazio pubblico, arte fruibile da un ampio pubblico e talvolta da un pubblico di passaggio, ignaro. Arte che si inserisce in un contesto pubblico, architettonico, urbanistico, paesaggistico, storico e sociale. Tuttavia non mi sembra che questo tentativo di definizione riesca a contenere tutte le possibilità di arte pubblica. Più che un’arte pubblica fatta di forme (o scultorea), quello che personalmente mi interessa è l’intervento artistico, sia questo autorizzato o meno, in un luogo pubblico. Mi piace chiamarlo “intervento” perché questa parola sottolinea la non necessaria permanenza e durevolezza nel tempo del lavoro, ma il suo essere una specie di incursione dell’opera nell’ambiente pubblico e il suo interagire con il contesto specifico.
Secondo te come può l'arte essere testimonianza del presente? E attraverso quali forme e modalità?
Per me l’arte è sempre testimonianza del presente.
Che cos'è un monumento, nella tua opinione?
Un monumento è un simbolo condiviso da una comunità. L’idea di monumento mi interessa particolarmente in relazione al cambiamento di significato che talvolta i monumenti subiscono. Trovo affascinante l’immagine di monumenti storici, talvolta giganti sculture, che viaggiano all’interno delle città, cambiando di luogo e significato, fino all’essere dismessi. Questo dimostra il grande impatto che può avere un’opera nello spazio pubblico, e come questo simbolismo sia messo in discussione o condiviso. I monumenti hanno la capacità di attivare la memoria collettiva, in relazione a specifici personaggi o eventi storici, ma sopratutto interrogando il nostro quotidiano rapportarci alla storia, alla società in cui viviamo e ai nostri simboli. Molti dei miei lavori riflettono sull’idea di monumento. Questa relazione è esplicita nel mio intervento Le teste in oggetto (2009), ma è anche presente in lavori come il film New Crossroads (realizzato in collaborazione con Kevin van Braak nel 2006). In questo film la scultura da noi costruita all’interno di un township a Città del Capo, una torre di travi di legno dipinte di verde, viene smantellata e distribuita tra gli abitanti del quartiere. Qui il monumento si consuma ed entra nella vita quotidiana. Anche un lavoro filmico come The Sun shines in Kiev (2006), attraverso la biografia frammentata del regista ucraino Vladimir Shevchenko, riflette sulla figura dell’eroe nazionale. Il film The Undercover Man (2008), riflette sull’idea celebrativa del monumento, sul nostro creare simboli.
In quella che era la platea del teatro Margherita hai installato il tuo lavoro LA CINEMATOGRAFIA È L’ARMA PIÙ FORTE (2007), una proiezione su grande schermo, della frase che si trovava originariamente a Cinecittà, gli studi cinematografici voluti da Mussolini. Anche senza mutare i termini (televisione al posto di cinematografia, per esempio?) le implicazioni di questa frase e del tuo lavoro sono straordinariamente attuali nel panorama sociale e politico italiano. Il tuo lavoro spesso si confronta con la storia italiana, soprattutto quella del Ventennio. Vorrei sapere se questo tuo interesse è nato e si è sviluppato nel tuo lungo soggiorno all'estero, come un modo per confrontarti con la nostra storia e forse con il nostro presente, e quali sono le motivazioni che ti muovono in questa ricerca.
Sicuramente il mio interesse per la storia si è sviluppato durante il soggiorno estero. Tuttavia La cinematografia è l’arma più forte è un lavoro che ho realizzato per la prima volta nel 2003 alla Fondazione Olivetti di Roma, prima del mio trasferimento in Olanda. Dipinta sul muro interno della fondazione, la scritta metteva in relazione l’interno dell’edificio con una parte di storia romana, riflettendo sul ruolo dell’arte in relazione con la società (che è nei propositi della fondazione Olivetti) e come questa possa essere utilizzata dalla società stessa come mezzo di propaganda. Quello che mi interessava era anche mostrare come l’estetica (il font, il bianco su nero) fosse parte integrante della storia. Al primo impatto visivo, la scritta era immediatamente percepita come fascista. A parte l’utilizzo della medesima citazione, ho rielaborato questo lavoro in altri contesti espositivi, mettendo in evidenza i diversi strati di significato che questa citazione può assumere. Nel 2007 ho riproposto La cinematografia è l’arma più forte nella stessa estetica, come intervento all’interno di un cinema. È stato proiettato per un mese come entre-act muto poco prima della proiezione di ogni pellicola all’interno della normale programmazione del cinema. A volte era anticipato da altri messaggi pubblicitari. Questo intervento sottolineava l’aspetto mediatico, quindi suggeriva come la macchina cinematografica fosse ancora produttrice di propagande (hollywoodiane, bollywoodiane, ecc.). Nel teatro Margherita di Bari, e nel contesto odierno, la citazione funziona in modo ancora diverso. Similmente a quanto avveniva a Roma, essa lega in un certo senso l’edificio a una storia fascista che è vivamente presente nella città, il cui lungomare è stato scenograficamente edificato durante il ventennio (l’Istituto d’Arte di Bari è tuttora collocato in un edificio a forma di M). Lo considero un intervento specifico all’interno dello spazio espositivo perchè rimanda alla storia dell’edificio stesso, un cinema di inizio secolo. Inoltre, visto nel contesto politico sociale odierno, non può che rimandare, come suggerivi, all’utilizzo del potere mediatico nella televisione berlusconiana. Tutte queste stratificazioni di senso sono generate dal contesto e dal modo in cui l’opera è installata, ed è l’interazione di questi elementi che la rendono attuale. La percezione dello spettatore e il suo vissuto, la sua memoria, sono un altro importante fattore per l’attivazione dell’opera.
Ma in che modo la distanza dall'Italia ti ha aiutato a guardare alla sua storia? Questo tuo interesse per tematiche storiche e politiche si è rafforzato anche in un contesto culturale più attento a questioni di questo genere o semplicemente la distanza ti ha permesso una maggiore lucidità o curiosità verso la tua identità storica e culturale?
L’Olanda è un luogo in cui è facilitato un approccio artistico di ricerca, e sicuramente la distanza mi ha dato una maggiore possibilità di riflessione su quella che è la mia identità culturale e storica, nonostante questo fosse già parte della mia ricerca artistica. Per me è sempre importante che ci sia una distanza fisica e mentale dal soggetto su cui sto lavorando, che si tratti di una persona, di una città, di unarchivio ecc. Infatti non lavoro mai nel luogo dove abito, che vivo quotidianamente. Anche un lavoro come il trittico video Muctar (2003), che rifletteva seppure in maniera surreale sulla situazione sociale disagiata degli immigrati russi in Napoli, l’ho pensato e realizzato solo dopo aver già lasciato questa città nella quale avevo vissuto per otto anni. Il mio approccio è un continuo alternarsi tra un completo coinvolgimento nel processo di “ricerca sul campo” e un’osservazione a distanza che mi permette di sintetizzare e astrarre. Rossella Biscotti è nata a Molfetta (BA) nel 1978 e vive a Rotterdam, in Olanda. Nel 2009 è stata tra le finaliste del prestigioso Prix de Rome olandese e ha avuto una personale alla Nomas Foundation di Roma. È attualmente tra gli artisti in residenza alla Rijksakademie di Amsterdam.