Alberto Tadiello

Antonella Marino

TESTO

IMMAGINI

BIOGRAFIA

Alberto, negli ultimi tempi sei richiestissimo. Sei stato invitato da Daniel Birnbaum a T-TRIENNALE DI TORINO nel 2008; hai vinto il prestigioso premio FURLA 2008-2009, suggellato da un'installazione alla fondazione QUERINI STAMPALIA di Venezia durante la Biennale; e ora ti appresti a partire per la residenza a Villa Arson, in Francia, messa in palio dalla LUM. Per me è una bella soddisfazione, dal momento che quando ti ho "scoperto", circa due anni fa, eri ancora agli inizi. Ti faccio però una domanda un po' provocatoria: non temi che tanta unanimità possa essere rischiosa e che una sovraesposizione del lavoro, magari cedendo a qualche compromesso, possa "bruciarti"?
 
Vorrei girarti la domanda. Non credi che una buona responsabilità sia anche in mano a curatori, organizzatori, galleristi, collezionisti, critici, giornalisti? Non credi dipenda anche dalla professionalità, dalla serietà, dalla puntualità di queste persone? Dalla precisione dei cataloghi, dai dati relativi alle immagini e rispettive courtesy, dalle interviste, dagli articoli pubblicati? Penso che parte dei rischi che un artista corre, compreso quello di “bruciarsi”, non sia esclusivamente una conseguenza della qualità e delle modalità di gestione del suo lavoro, ma anche dell’efficienza del “sistema” con cui ci relaziona. Ma devo ammettere che il talento di un artista può rivelarsi anche nel saper amministrare nel bene e nel male il rapporto con il “sistema”... E questo è interessante!
 
Entriamo nel merito delle tue installazioni. La mia impressione è che, pur essendo in apparenza fredde, esse sintetizzino in modo poetico un'osservazione profonda della natura e della realtà circostante, tradotta in suono. I processi vitali sottesi ai diversi ecosistemi, la ciclicità e la caducità, le variazioni e trasformazioni della materia, vengono evocati con rigore minimale usando dispositivi tecnologici, cavi e circuiti elettronici disposti nello spazio, che spazializzano onde sonore come invisibili forme plastiche, creando composizioni grafiche spesso di assonanza organica. Che valore attribuisci alla tecnologia e che tipo di interazione credi sia possibile tra arte e scienza?
 
Credo che un’interazione, un rapporto tra arte e scienza sia sempre esistito. La storia dell’arte stessa ce lo insegna. Per quanto mi riguarda, non ho un particolare giudizio sulla tecnologia. Non riesco a darle un “valore” preciso. Mi affascina, come mi affascina la natura, e spesso mi interessa trovare tra loro dei punti di contatto, delle similitudini, dei rapporti di vicinanza, di mimesi. Spesso della tecnologia mi incuriosisce la sua dimensione estetica, mi accorgo che il mio sguardo si incastra su linee piuttosto secche e nervose come filamenti di cavi, tubazioni, tralicci ferroviari, braccia di macchinari, scavatori, mezzi agricoli. Guardo la compattezza e la complessità di queste strutture, la severità, l’audacia di alcune forme estremamente aggettanti ed esposte, e penso che riescano davvero a incanalare le energie e lo sguardo.
 
Nei tuoi primi progetti i meccanismi sonori rimandavano a diversi sistemi circolatori, come l'azione delle maree, dei sismi o dei flussi linfatici: ad esempio, in RMN del 2005 un computer e alcuni subwoofer trascrivevano i livelli del mare di un intero anno nella laguna di Venezia in suoni a bassissima frequenza, percettibili come vibrazioni corporee. La sperimentazione di contrasti e rapporti di forza, di tensioni portate fino al limite di rottura, sono evidenti invece nella serie di disegni rotatori eseguiti con trapano, compasso o penne a sfera. O nelle ambientazioni come EPROM, allestita alla galleria T 293 di Napoli l'anno scorso: dove un insieme di cavi elettrici collegati ad alimentatori di motori azionano 40 carrillon, in una rotazione accelerata che genera cacofonia. Con l'usura dei cilindretti il frastuono si attenua fino a svanire, lasciando però nello spettatore una sensazione di malinconica entropia. Condividi questa lettura, e cosa ti interessa soprattutto comunicare?
 
Non si tratta di comunicazione o di rappresentazione, ma di far passare un brivido, un pensiero, una tensione, uno sguardo. Credo che nei lavori ci siano diversi livelli di complessità, di forza, di interesse, forse anche di ingenuità: vi sono diverse possibilità di lettura. Forse ci sono dei temi che mi interessano particolarmente, ma ritengo di essere ancora troppo giovane per poterli definire tali: preferisco parlare di contingenze, di urgenze, di suggestioni che esploro da tempo.
 
Nel tuo intervento al Margherita hai scelto di operare su un registro rarefatto, rinunciando ad aggiungere forme sul piano visivo, per lasciare protagonista la grande cupola dell'ingresso del foyer, da poco restaurata. Per incuriosire il pubblico e sollecitarlo ad alzare la testa e lo sguardo verso l'alto, hai simulato un canto clamoroso di uccelli che si rincorreva dentro il cielo azzurro affrescato con ghirlande floreali, con rimandi al tuo conterraneo Tiepolo. Nella sua ambiguità, accentuata dalla presenza nello spazio di colombi veri, l'operazione mi sembra riuscita. Pensi che questa tendenza all'azzeramento, l'ooportunità di agire con mezzi lievi, sia pur sofisticati, di poetica intensità, possa essere una via da seguire, in alternativa agli ingombri materici, al frastuono segnico e agli eccessi formali?
 
Questo lavoro si sviluppava proprio in relazione allo spazio e ne sfruttava le potenzialità. Durante il primo sopralluogo mi sono reso conto della complessità dell’edificio, estremamente articolato in stanze, scale, balconi, pilastri... Sentivo l’esigenza di tenere lo spazio con un unico gesto utilizzando quella dimensione visiva. La parte centrale del teatro è un corpo unico molto grande, impressionante, sembra una chiesa sventrata, senza navate. Volevo usare questa cavità come una cassa sonora e fare in modo che il suono si infilasse ovunque. Anche le pareti grezze, il cemento a vista, il cantiere stesso sembravano adattarsi perfettamente a un intervento di questo tipo. Il lavoro esposto era il richiamo d’amore di un uccello leggermente rallentato. Avevo disposto tutto l’impianto audio al piano superiore, inagibile, in modo da abbracciare l’architettura: non si vedeva nulla. Il suono perforava lo spazio con una certa insistenza e inevitabilmente si alzava lo sguardo per individuarne la fonte. Anche l’occhio quindi attraversava il volume centrale fino a incontrare la cupola affrescata, che conteneva il suono come uno sfondo scenografico. Non è la prima volta che presento un lavoro audio così dilatato e rarefatto. In tutte le fasi di preparazione conduco un processo di sottrazione, la- voro sempre per raggiungere una rigorosa secchezza formale. Spesso alcuni lavori non mostrano nulla più di ciò che è puramente necessario al funzionamento stesso. Tuttavia, non sento la necessità di conside- rare questo atteggiamento come una tendenza o una via da seguire: è semplicemente una modalità di sguardo.


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