Alessandro Piangiamore

Francesco Stocchi

TESTO

IMMAGINI

BIOGRAFIA

Mi racconteresti la genesi di QUANDO IL FUORI DI ADESSO ERA DEN- TRO E IL DENTRO FUORI (2009), l'opera rappresentata al Teatro Margherita di Bari in occasione del Premio LUM?
 
I miei lavori hanno la caratteristica di mirare a quella sorta di fraintendimento che si genera nello spazio tra l’apparenza delle cose e la loro reale natura. Il lavoro presentato è una scultura che in apparenza sembrerebbe un ramo di legno, mentre in realtà è un ramo di corallo. La genesi di questo lavoro non è relazionata al contesto all’interno del quale è stata presentata. È pur vero che il lavoro sembra avere una relazione con la storia del Teatro Margherita: questo luogo nasce infatti sul mare, e solo successivamente è stato ricongiunto con la terraferma. Ma in questo apparente nesso non vi è alcuna intenzionalità da parte mia. Preferisco pensare a quest’opera come al risultato di una pietra filosofale che funziona all’inverso o come a una storia che racconta un senso di insoddisfazione.
 
Un buon esempio della condizione di fraintendimento di cui parli potrebbe essere l'opera LA GRAVITÀ DELL’ARCOBALENO (2006).
 
Sì, sono d’accordo. Quest’opera consiste in un calco in gesso ribaltato di una pozzanghera d’acqua piovana. È un lavoro di qualche anno fa, nato pensando a come avrebbe potuto manifestarsi un’eventuale precipitazione di un’arcobaleno (cosa impossibile, almeno fino a quel momento). Uno degli aspetti che più mi affascina di questo lavoro è che rappresenta un volume che non siamo abituati a considerare: se pensiamo a una pozzanghera vediamo una sorta di cavità, l’acqua al suo interno, ma non il pieno della sua forma. Mi viene in mente un pensiero formulato da Bruce Nauman in un’intervista che ho letto qualche tempo fa: “Gli oggetti deformano lo spazio”.
 
A questo riguardo, sembra proprio che i tuoi "oggetti" deformino la nostra percezione, mettendo in crisi sicurezze condivise. Allo stesso tempo, però, essi si allineano allo spazio più che deformarlo.
 
Dal mio punto di vista, è un’idea che non riguarda la percezione solo fisica dello spazio ma anche le condizioni mentali che un oggetto scatena nel momento in cui inizia a esistere in un dato luogo. Lo spazio permane ma muta il modo di relazionarsi a esso, nel senso che, svuotato da quell’oggetto, lo spazio riacquista le sue caratteristiche originarie ma la relazione che noi abbiamo con esso risulterà condizionata in futuro. Credo che gli oggetti siano dei catalizzatori dal momento in cui manifestano la loro presenza, tutto ciò che avviene attorno a essi non può prescindere dalla loro esistenza stessa.
 
Poi diventa una faccenda personale, come il titolo vuole esplicitare, perché si entra nella sfera privata di ogni reazione che l'opera può attivare.
 
Mi interessa che ciascuno spettatore stabilisca le proprie relazioni con un’opera, anche perché volerne proporre una assoluta, da parte mia significherebbe chiudere un cerchio ed eliminare possibilità altre, decretando una risposta. Un’opera deve poter esprimere la propria capacità di aprire porte che sarebbero rimaste chiuse, di portarti in luoghi in cui non sei mai stato. Penso al fatto che spesso delle opere vengono “consumate” rapidamente. Personalmente rimango sempre colpito da opere che non si chiudono, che lasciano in moto qualcosa che continua a lavorare anche a distanza di tempo, Altre vengono consumate in relazione alla loro “bellezza”, a una valenza di tipo estetico che spesso si esaurisce nel momento stesso in cui stabiliamo se “ci piace” o meno.
 
Tornando al rapporto che le tue opere hanno con lo spazio, generalmente non lavori sul concetto di site-specific, anche se hai già presentato progetti che rispondevano al luogo che ospitava. Quali di questi vorresti ricordare?
 
Quando dirigevi l’Angelo Mai a Roma e sono stato invitato a presentare un progetto in situ, trovavo il luogo molto difficile. Mi sembrava talmente forte e connotato da non poter prescindere dalle sue caratteristiche, da quello che accadeva al suo interno. La scelta di utilizzare dell’urina in L’osso è sacro (2005) come strumento per marcare un territorio, penso sia relazionabile alle caratteristiche del luogo stesso. Quella macchia racchiudeva il senso di territorialità. Di fatto, però, quel gesto lo si potrebbe anche spostare altrove e conserverebbe la sua potenza. È importante il fatto che quel lavoro continui a vivere anche dopo la scomparsa del luogo all’interno del quale è nato. E che continui a vivere a prescindere dal contesto che l’ha generato.
 
Di questo lavoro funziona molto bene anche la testimonianza fotografica. A questo proposito, che rapporto desideri instaurare tra le tue sculture e le immagini?
 
In genere penso a un’opera non nella sua singolarità ma come parte di un ipertesto, all’interno del quale ciascuna parte ha una sua autonomia e contemporaneamente è relazionabile ad una o più delle altre parti.
 
A questo proposito, mi descriveresti il progetto presentato l'anno scorso a Torino per T2 – TORINO TRIENNALE? Si trattava di un'opera che radunava progetti singoli nati in momenti diversi.
 
In occasione della mostra il curatore scelse tre lavori nati appunto in momenti differenti. Solo successivamente mi resi conto della ragione di questa scelta: l’idea curatoriale ruotava attorno alla condizione di “malinconia”, e tra le varie fonti c’era ovviamente la Melancolia di Albrecht Dürer. I tre lavori scelti erano direttamente relazionabili alla simbologia relativa alla Melancolia: un sole nero, un’arcobaleno, una scala. È strano perché non ho mai pensato al mio lavoro in relazione alla condizione di malinconia, né mi sono mai ispirato all’opera di Dürer.
 
Per finire, che cosa accade nel tuo immediato futuro?
 
Sto pensando a nuovi archetipi, il che è di per sé una contraddizione in termini.
 


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