Dafne Boggeri

Antonella Marino

TESTO

IMMAGINI

BIOGRAFIA

Con la tua installazione per il premio LUM, hai scelto di dare visibilità a una cupola in legno del teatro Margherita non ancora restaurata e posta in una zona interdetta al pubblico: hai posizionato sotto la volta illuminata una quindicina di specchi inclinati di varie fogge, epoche e dimensioni, che ne restituivano l'immagine in frammenti.  Con un risvolto relazionale: gli specchi sono stati forniti da amici e abitanti di Bari vecchia, che hanno così concorso alla creazione di un metaforico puzzle corale. So che il progetto ti ha appassionato e che si è innescato un feeling con il territorio barese, che mi risulta non avessi mai avuto occasione di conoscere prima di questa esperienza. Qual è il tuo bilancio di questa partecipazione e che impressioni ne hai ricavato?
 
Avere la possibilità di intervenire in un luogo come il Teatro Margherita è un privilegio. La sua storia è stratificata, piena di contraddizioni, specchio di un luogo che è non solo geografico ma anche mentale: un edificio plug-in capace di scorporarsi dalla città e salpare solitario o sprofondare per sempre, puff... Nato come escamotage per eludere una serie di norme locali sulla gestione degli spazi teatrali, la sua struttura originale in legno venne distrutta da un incendio doloso e sostituita dalla prima costruzione in cemento armato su palafitta di tutta Europa. Inizialmente l’edificio era collegato alla terraferma da una passatoia, poi negli anni è stato inglobato nel ritmo della città, accerchiato da una strada trafficata e occupato nei livelli sottostanti da un circolo privato. Ora la sua natura è più ambigua e mimetica: i piloni della struttura si scorgono a malapena e da “criminosa follia”, come venne definito all’epoca per il forte impatto ambientale sul paesaggio, ha l’occasione di diventare un prezioso contenitore/laboratorio, ponte fra presente e futuro prossimo. C’è un ambizioso progetto intorno alla nuova funzione del Teatro che, se gestito in modo “sano”, potrà portare a galla tante plurali “follie” creative. Ora gli spazi interni sono ancora un cantiere, l’edificio è un monolite non finito ma perfettamente funzionante: io credo dovrebbe rimanere così, brutale e onesto, nel contrasto della sua pelle restaurata e dei suoi ambienti interni monocromi e indefiniti...
 
L’interrogazione sull'identità dei luoghi e sulla loro potenziale trasformazione in rapporto all'esperienza di chi li osserva è un aspetto centrale della tua poetica. Tu sei partita da esperienze svincolate dalla realtà accademica, come writer e ideatrice di eventi queer, entro le quali ti sei anche cimentata nella produzione di fanzine e di un mock-brand, KLAVA. Fondamentale è il rapporto con la musica, che hai coltivato anche attraverso la collaborazione con gruppi come il collettivo francese  KILL THE DJ e la band berlinese RHYTHM KING AND HER FRIENDS oltrechè attraverso l'organizzazione di un festival. Queste esperienze "extracurriculari" si traducono in una capacità di attraversare ambiti espressivi differenti e di innescare contaminazioni ironiche e sconfinamenti inediti, alternando video, installazioni e performance. Qual è il filo conduttore che accomuna queste scelte e come concili i diversi ruoli che hai rivestito e rivesti?
 
Mi confronto con esperienze che attraversano trasversamente i campi espressivi, creando dispositivi informali di indagine che portano l’espe- rienza collettiva e dei singoli al centro dell’opera. Quello che mi interessa è “fare in modo che le cose succedano”, mischiare la chimica umana per poi osservarne le reazioni. Non penso che estendere il proprio territorio di ricerca sia qualcosa di nuovo: mi riferisco ad esempio all’esperienza dell’americana Emily Roydson, che partecipa come artista al progetto musicale MAN, o all’artista peruviana Melissa Castagnetto, che produce anche trasmissioni radio.
 
Il tuo è un percorso rigoroso ma anche difficile, che tende a sfuggire dagli schemi di mercato. Qual è la tua posizione a riguardo? C'è qualche galleria che ti sostiene?
 
Molly Nilsson, una musicista che ultimamente seguo molto, canta: “These things take time...”.
 
Come altri artisti hai fatto alcune esperienze di residenza all'estero. La più importante credo sia stata quella alla MOUNTAIN SCHOOL OF ART di LOS ANGELES nel 2007, con il supporto della borsa di studio vinta nell'ambito del programma  MOVIN’UP – GIOVANI ARTISTI ITALIANI. Quali stimoli hai ricevuto da questo soggiorno e cosa pensi si possa o si debba fare in Italia per promuovere e sostenere i giovani artisti?
 
La Mountain School è una scuola anomala: ci si riunisce come una setta satanica al secondo piano di un bar tre volte la settimana, si seguono corsi di filosofia, scienza, storia dell’arte recente e si assiste a lecture di artisti con base a Los Angeles o di passaggio in città. È un modo molto informale ma efficace di avvicinarsi alla scena della West Coast. I mentori di questo contenitore informe e generoso sono gli artisti Piero Golia e Eric Wesley, che con l’aiuto di ottimi volontari coordinano ogni anno un gruppo di circa venti studenti da ogni parte del mondo. Al di là di Movin’up, che credo sia una delle opportunità più utili per gli artisti e curatori desiderosi di affrontare un’esperienza all’estero, penso sia necessario in Italia introdurre dei programmi internazionali di residenza che, con il supporto di fondi adeguati, possano condurre una seria attività di ricerca, sperimentazione, didattica e produzione. Luoghi dove costruire e decostruire tutto per poi ricominciare ancora, dove far confluire esperienze diverse, attività interdisciplinari a trecentosessanta gradi sulla cultura contemporanea.
 
Tornando al premio LUM, va detto che la tua opera è stata tra le più apprezzate, anche se non sei entrata nella rosa dei cinque finalisti. Pensi sarebbe possibile riproporla in un altro contesto e quali sono i tuoi prossimi impegni?
 
Il progetto per il Teatro Margherita è nato per quel luogo con la complicità della popolazione barese: anche se non lo escludo a priori, è difficile pensare di poter riproporre lo stesso dispositivo altrove. Per quanto riguarda i miei progetti in corso, ho appena finito di realizzare un video per un progetto collettivo della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Contemporaneamente sono impegnata con l’artista Noga Inbar e la ricercatrice Nicole Emmenegger nella produzione della seconda edizione di MOTHER: An Independent Nomadic Wowmen’s Music Festival. La prima edizione è stata realizzata nel 2009 a Tel Aviv e in totale ne organizzeremo tre, ospitate in diverse città del mondo per formare sulla mappa terrestre il perimetro di un triangolo equilatero, simbolo del festival. Sarà coinvolta una lunga lista di artiste e musiciste internazionali, con l’obiettivo di creare un momento di scambio in cui la performance musicale dal vivo sia al centro del programma di eventi capace di occupare lo spazio in forme diverse.


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