Diego Valentino

Francesco Stocchi

TESTO

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BIOGRAFIA

Usi spesso, se non sempre, materiali industriali, comunemente definiti "poveri" o di usco quotidiano. Da cosa dipende questa scelta? È dovuta alla loro particolare malleabilità o adattabilità, alla volontà di decontestualizzazione rispetto a una precisa funzione o altro?
 
La cosa che più mi affascina dei materiali che uso è sicuramente il fatto che hanno sempre lo stesso colore sia in superficie che all’interno. Il PVC presenta lo stesso colore sia in superficie che in sezione, cosi l’alluminio, l’acciaio, l’MDF, etc. Questi materiali si ottengono per trafilatura, formatura e pressatura di una massa informe ma omogenea: sono processi industriali che hanno come target di riferimento l’applicazione nel campo dell’edilizia, della metalmeccanica etc. Lo spostamento da queste applicazioni al campo delle arti visive è sicuramente un aspetto che mi interessa nella misura in cui riesce a minare determinate abitudini percettive.
 
Ciò crea anche una relazione tra inustria e cultura?
 
Binomio non sempre dichiarato, ma sempre esistito.
 
Ti riferisci a qualcosa in particolare?
 
Mi riferisco al fatto che da sempre i materiali – il gesso, l’argilla, i colori... – sono prodotti da industrie e finalizzati all’acquisto: i miei sono semplicemente materiali diversi da quelli classici.
 
In occasione della mostra per il premio LUM presso il teatro Margherita di Bari hai proposto, come è tipico del tuo linguaggio, un'opera site-specific. Potresti descrivere come è nato questo progetto? Procedi sempre rispondendo allo spazio ospitante?
 
Partendo da un determinato approccio personale al lavoro, cerco di adattare le mie riflessioni al luogo che dovrà ospitarle: sono sempre interessato alle possibilità di fruizione dello spazio e a come gli spettatori possono interagire con il lavoro nato dall’incontro tra suggerimenti fisici del luogo e concetti personali.
 
Sebbene certi riferimenti architettonici e sociali appartengano alla tua ricerca come elementi di partenza, i tuoi lavori definiscono un tempo sospeso, astratto, che sfugge al ricorso, quantomeno esplicito, a quegli stessi riferimenti. sei d'accordo? E' questo che cerchi?
 
Penso che questi riferimenti siano dei punti di partenza fondamentali nella mia ricerca, poi quanto di ciò venga percepito all’esterno è una cosa di cui non mi sono mai interessato: rimane comunque un discorso intimo, perso- nale. E in ogni caso, quando parlo di architettura, la intendo non come stile di costruzione, ma come rapporto tra individuo e spazio vivibile, abitativo, in modo simile a quanto sosteneva Vito Acconci. I miei sono sempre tentativi di innescare delle relazioni tra il lavoro, lo spazio e il pubblico.
 
Mi viene in mente  Pi greco (2008). potresti parlare di quest'opera?
 
È un tipico esempio di un’idea nata in precedenza che ha poi trovato casa in uno spazio: parliamo di un castello della metà dell’Ottocento con delle torri, una affacciava sul giardino antistante al castello e l’idea era quella di creare uno spazio dove poter racchiudere un po’ della quiete che il paesaggio comunicava e in cui fosse possibile isolarsi senza perdere il contatto con l’esterno. Ho quindi realizzato una struttura circolare che ricalcasse esattamente il perimetro della torre, dove si poteva entrare e chiudersi, con la sensazione di essere “in giardino” pur restando all’interno. Grazie anche al rivestimento in acciaio che rifletteva la luce del sole.
 
Rispondi al luogo che ti ospita e al tempo stesso cerchi di ripetere la percezione artefatta che si ha del reale.
 
Parlerei più di abitudini percettive che abbiamo: sono quelle che attraverso i miei tentativi cerco di mettere in discussione.
 
Perché li chiami tentativi?
 
Perché la riuscita o meno dipende dalla risposta che ottieni. Considerato che la reazione riguarda altri individui, non si può avere la certezza di reazione ma è necessario fare tentativi e aspettare per vedere cosa succede.
 
Tornando al tuo modo di ripetere la percezione artefatta del reale, mi riferivo per esempio al lavoro presentato nel 2008 presso l'American Accademy di Roma.
 
Era molto tempo che volevo fare un lavoro sulle benzodiazepine; quando ho visto il motivo esagonale del pavimento della sala, mi ha fatto pensare alla rappresentazione grafica delle molecole. Così ho evidenziato alcune parti del pavimento ricostruendo la composizione di queste molecole. Il tentativo era quello di far percepire la superficie non come un continuum ma piuttosto come un insieme di parti che, raggruppate in un certo modo, possono rappresentare qualcos’altro.
 
Come evidenziare il valore dell'unità rispetto al mosaico?
 
Sì, per non parlare delle implicazioni sociali che quel lavoro potrebbe assumere se ospitato, ad esempio, in un’istituzione americana: negli Stati Uniti, infatti, questo tipo di farmaci è incredibilmente diffuso... Per riprende- re quello che dicevamo prima, anche se queste considerazioni non sono immediatamente leggibili nell’opera finita, rimangono fondamentali per me nell’ideazione del lavoro.
 
Dato che l'intervista è destinata a una pubblicazione realizzata in occasione dei un concorso sull'arte italiana, vorrei chiederti che cosa pensi in generale dei concorsi d'arte?
 
Sono un po’ sfiduciato nei confronti di questo tipo di realtà, sicuramente ciò è dovuto dalla mia scarsa esperienza, ma spesso mi sembrano preordinati in base a criteri che onestamente non condivido.
 
Criteri legati a una visione conservatrice dell'arte? Criteri politici?
 
A una visione clientelare e di scopo, nel senso che ogni scelta porta sempre con sé una serie di ripercussioni e vantaggi.
 
Perché allora hai accettato il mio invito? Speravi di essere smentito, era un'occasione per metterti alla prova?
 
Partecipare mi ha dato l’opportunità di realizzare un lavoro e di mostrarlo, oltreché di confrontarmi con altri artisti della mia generazione. Non ho vissuto quest’esperienza tanto come un concorso, quanto piuttosto come una mostra.
 
Di cosa ha bisogno secondo te un giovane artista italiano?
 
Una cosa fondamentale, di cui sento molto la mancanza, è la consapevolezza diffusa di cosa sia l’arte. Quando dici che fai l’artista, per molti è come se dicessi che non fai niente...
 
E riguardo al sostegno per gli artisti? Ritieni siano più indicati fondi o strutture?
 
Maggiori fondi per le strutture già esistenti.
 
 
 


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