L'arte in corpo

Pietro Marino

TESTO

IMMAGINI

La cultura della complessità e della pratica delle contaminazioni connota fortemente il nostro tempo. La mostra nel Teatro Margherita dei quindici giovani artisti italiani protagonisti del Premio LUM, giustifica il progetto di trattare un altro aspetto di quella storia così ricca di cambiamenti: la vicenda degli scambi e degli incroci fra arti visive, teatro, danza, musica, che sono esplosi fra la metà degli anni Cinquanta e i Settanta del Novecento e fanno sentire gli effetti deflagranti ancora oggi.
Ci troviamo in uno spazio, piantato nell’acqua, che non è più teatro né kursaal né cinema, ma cantiere di una ricostruzione interrotta in attesa di sapere chi se ne occuperà e per quale altra destinazione. Questo luogo dal fascino ambiguo e dal destino incerto è entrato in sintonia con interventi di arte anch’essi al limite della precarietà e della dissolvenza. Abbiamo avvertito la misteriosa fascinazione dell’incontro fra tracce di pensieri e di emozioni di oggi e la suggestione remota del luogo. Piace pensare che questa nuova disponibilità del pubblico sia anche effetto alla lontana di un cambiamento, anzi di un arricchimento, dei nostri modi di attivazione, ricezione e coinvolgimento dell’immaginario.
Siamo anche in Puglia sull’onda lunga delle rivoluzioni che hanno scosso l’universo delle arti. Ma ci stiamo abituando anche a un altro fenomeno: cioè la tendenza delle arti a uscire dai loro sedi istituzionali, i musei, i teatri, sino scambiarsi ruoli e funzioni... Ecco dunque l’idea di sviluppare in questo spazio ibrido un tema altre volte accennato: la convergenza delle arti su un soggetto-protagonista che è il Corpo in azione in spazi assunti in qualche modo come scena. Ma scene che non rispondono più alle tradizioni e convenzioni sia del teatro che del museo. Percorrerò un sentiero all’interno di questa selva delle convergenze fra linguaggi, con alcuni esempi che hanno significato storico, ma rinviano anche a esperienze dirette. Perché l’arte va vissuta prima che raccontata e giudicata. Per questo la conversazione s’intitola “L’arte in corpo”, un po’ citando il famoso romanzo di Raymond Radiguet "Il diavolo in corpo" che è del 1921 (titolo saccheggiato dal cinema, con i film di Claude Autant-Lara del 1947 e di Marco Bellocchio, 1986).
Qual è dunque la situazione che attraverso le immagini si andrà delineando? Dal punto di vista del teatro: l’attore è divenuto non più l’interprete di un personaggio concepito altrove, il dicitore di una pagina scritta da altri, ma è lui stesso il personaggio. Non attore ma attante, suggerisce una autorevole studiosa, Valentina Valentini: cioè uno che col suo corpo compie atti, e agendo crea un suo mondo. Quindi lo spazio scenico non è più fisso e chiuso ma provvisorio e mobile. Gli oggetti e le immagini coinvolti nell’azione non sono più “scenografia” classica, cioè rappresentazione o evocazione illusoria di ambienti esterni, ma partecipano all’azione dei corpi, sono attanti anch’essi. Assume così nuovo protagonismo la danza, tipica arte del corpo senza parole. Anche il dan- zatore non è più l’interprete virtuosistico di una musica che gli è data, ma costruisce lui il ritmo, definisce con i suoi passi il senso dello spazio-tempo. Avverte Eugenio Barba, il regista salentino che fondò nel 1964 l’Odin Teater a Oslo (dal 66 ha sede a Hostelbro in Danimarca): ”I principi che riconosciamo, e da cui scaturisce la vita dell’attore, non tengono in alcun modo la distinzione fra teatro, mimo o danza”. A sua volta l’artista visivo non vuole più rappresentare mondi. Ma “fa mondi” – come suggerisce il titolo della mostra della Biennale di Venezia 2009 curata dallo svedese Daniel Birnbaum, ispirato a sua volta da un saggio del filosofo americano Nelson Goodman, Ways of Worldmaking, del 1978, pubblicato nel 1988 da Laterza col titolo "Vedere e costruire il mondo".
Anche l’artista visivo mette in gioco gli oggetti, il suo corpo stesso, o si fa regista di altri corpi. Chiede spesso al pubblico di non essere spettatore, ma coautore. Così i tre – o quattro – mondi convergono. Si scambiano i codici. I linguaggi si ritrovano nella visione e nella costruzione di un territorio comune ma mobile. Un “territorio magico”, metafora coniata da Achille Bonito Oliva quarant’anni fa . In questo territorio possiamo entrare con l’immagine emblematica di due corpi nudi e avvinghiati, come novelli Adamo ed Eva, al cospetto di un pubblico quasi da strada. Sono Julien Beck e Judith Malina, fondatori nel 1948 del Living Theater. Questa è una scena del loro storico spettacolo Paradise Now (1968).  “Non abbiamo bisogno di idee ma di sensazioni”, proclamava Julien Beck. Era un tempo in cui l’arte inseguiva il sogno di irrompere nella vita, di confondersi e quasi annullarsi nei gesti minimi, negli oggetti umili, nella nudità dei corpi, appunto. Per molti artisti il corpo nudo diveniva un materiale vivente da plasmare. Anzi il luogo fisico su cui far accadere i gesti che erano dell’arte, il Sé da esplorare e mettere alla prova. È questo il senso delle varie esperienze di Body Art. Mai non dobbiamo parlare dell’arte che si fa sul corpo, ma di quella che si fa col corpo. Dalla storia della Body Art estraggo solo un episodio che ha a che fare molto col teatro e col rito, con una esplicazione che definirei “eccessiva” nel senso barocco ed espressionista del termine. Parliamo del Teatro delle orge e dei misteri di Hermann Nitsch, l’artista protagonista dell’Aktionismus viennese ideatore dal 1957 di una serie infinita di performance di ispirazione dionisiaca e freudiana. Furono portate ad alto grado di complessità dagli anni Settanta con il Teatro dei sei giorni che si svolge annualmente nel Castello di Prinzendorf, divenuto sua principesca residenza. Animali macellati, le interiora e il sangue, insieme con frutti e fiori, cortei e musiche esaltano la liberazione della natura dalle rimozioni e dai tabù, il sacrificio e la passione, con il coinvolgimento di tutti i sensi. A Nitsch è ora dedicato un museo-laboratorio a Napoli, per iniziativa della Fondazione di Beppe Morra.  All’estremo capo opposto delle scelte linguistiche si potrebbe collocare la messa in gioco del corpo che avviene mediante la sua scarnificazione, la riduzione dei gesti alla essenza prima. Questo brusco cambio di scena è affidato alla immagine ascetica, ieratica di Pina Bausch, la grande coreografa tedesca scomparsa nel luglio 2009. Un giornale ha detto che la grande artista era “il Picasso della danza”. Titolo che sottolineava (sia pure con qualche enfasi giornalistica) il ruolo innovativo da lei assunto nello smantellare la danza, usando il corpo come segno di investigazione, presa di possesso di uno spazio di vita. Segnaliamo la sua piéce più famosa, Café Mueller (1978).Su musica di Henry Purcell, il suo fantasma bianco si aggira a occhi chiusi, quasi in stato ipnotico, sulle soglie dell’ombra, con scatti drammatici fra le sedie e i tavolini di un ritrovo senza clienti, che alcuni maschi litigando cercano di rimuovere mentre una donna passa, un’altra è portata via... Un dramma della soli- tudine, dell’ossessione dell’incontro e dell’impossibilità di rapporto fra uomo e donna, che ha sempre emozionato gli spettatori. Almodovar le ha dedicato la scena con cui si apre il film Parla con lei. Si capisce già così il tentativo che si veniva compiendo di ritrovare il senso più profondo, esistenziale, del fare arte.
Una conferma viene da una azione di Bruce Nauman, Walking in Exaggerated Manner around the Perimeter of a Square (1967). Fu proiettata al Madre di Napoli due anni fa, in occasione della mostra antologica del grande artista americano (gli Stati Uniti gli hanno dedicato il loro padiglione alla Biennale 2009, ottenendo così il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale). Era giovane Nauman mentre prendeva le misure del suo spazio e del corpo, assumeva il controllo delle posture e delle movenze, percorrendo in punta di piedi, quasi in bilico, avanti e indietro, il quadrato da lui tracciato sul pavimento.  Dalla metodica presa di possesso dello spazio vitale si può passare per contrasto alla rottura dell’ordine dei gesti dell’arte. Era avvenuta già nei Cinquanta con la pratica dell’happening. L’happening – gerundio sostantivato del verbo to happen, “avvenire, accadere”, si affidava all’immediatezza e alla imprevedibilità dell’azione spiazzante. Pioniere degli happenings è stato Allan Kaprow. In 18 Happenings in 6 Parts (1959), l’artista americano, giovane studente di John Cage, invitò un pubblico limitato a sessantacinque persone a partecipare a un evento che si svolgeva nello spazio di una galleria di New York diviso in tre “stanze” da pannelli provvisori con segni di pittura informale (alla maniera di Pollock) e scritte dello stesso Kaprow. Il pubblico aveva sedie assegnate e istruzioni per partecipare agli eventi – sei in ciascuna stanza – scanditi da una campanella come a scuola. Azioni banali, tipo una ragazza che sbucciava arance, o un artista che accendeva fiammiferi, o suonatori improvvisati (fra gli “attori” c’erano giovani colleghi di Kaprow come Rauschenberg e Jasper Johns). Altro happening celebre di Kaprow è Yard (1961): una montagna di copertoni lanciati e accumulati nel cortile di una galleria di New York, che la gente era invitata a scalare spostando a suo piacere le gomme.  Ma precursore è anche il gruppo giapponese Gutai. L’installazione Laceration of paper (1961), sipari di carta che l’artista Mukamari attraversava sfondandoli, è stata esposta nella sala dedicata al Gutai nell’ambito della rassegna ufficiale “Fare mondi” curata da Birnbaum alla Biennale di Venezia 2009.  Gli happenings furono la prima formulazione ma anche la punta estrema di una idea di cultura e di arte incentrata sull’azione libera del corpo, che si può riassumere in una parola-chiave per molta arte basata sul comportamento anziché sull’opera: performance. Il termine contiene in sé l’idea di un evento che “prende forma”, ma con un attra- versamento – il “per” – che nega il prodotto con- cluso dell’artista e il copione seguito dall’attore. Qui, nel gioco tra ordine e disordine, interviene l’importanza assunta dalla danza. La new dance ha portato nella dimensione fluida della perfor- mance una sorta di misura, un ritmo tradotto visivamente in sensazione, messa in tensione degli spettatori. Questo ritmo interno può fare a meno della musica, può esplicarsi in pura azione, oppure è esso a dettare la costruzione o decostruzione dei suoni. Spesso l’evento nasce dal dialogo fra artisti della visione, compositori, coreografi che partecipano al progetto di radi- cale ibridazione di movenze dell’immaginario. Un punto strategico di questo fenomeno straor- dinario fu il mitico Black Mountain College nel North Carolina dove si ritrovarono fra i Cinquan- ta e i Sessanta personaggi come John Cage e Merce Cunningham, il poeta della beat gene- ration Allen Ginsberg e l’inventore della cupola geodesica Buckminster Fuller; vi passarono Ein- stein e Gropius, ne furono alunni Rauschenberg e Twombly, vi insegnarono Albers, De Kooning, Kline. Una vicenda che ha trovato espansioni e sviluppi nei decenni successivi. Cominciamo con l’omaggio alla memoria di un altro grande da poco scomparso, Merce Cunningham. Se Pina Bausch era il “Picasso della danza“, per Cunningham si è scritto che era “l’Einstein della danza”. A sottolineare con la solita enfasi colorita l’invenzione di una sorta di relativismo dei tracciati dei passi dei danzatori nello spazio scenico. Come sembra confermare un disegno per così dire “scientifico” che sembra anticipare i disegni concettuali di Sol LeWitt: Suite by Chance (Space Chat Entrance and Exit (1952).  Un lavoro che segna la storica collaborazione fra Cunningham e John Cage è Variations V (1965). I passi del danzatore-coreografo uscito dalla grande scuola di Marta Graham si svolgono fra monitor retti su aste che trasmettono programmi tv, specchi che rinviano luci, e registratori di rumori che si fondono con le notazioni musicali del compositore che assume il ruolo di guru della rivoluzione in corso. La performance danzante ebbe le sue prime esecuzioni in grandi musei dell’antico, la National Gallery di Washington e il Metropolitan Museum di New York.  La collaborazione con gli artisti è fondamentale in Cunningham. Lo conferma Walk around Time (1974) con scenografia di Jasper Johns. Gli elementi di scena ideati da uno dei più celebri protagonisti del New Dada e della Pop Art sono blocchi di plastica trasparenti sui quali sono disegnate parti della più famosa ed enigmatica opera di Marcel Duchamp, Il Grande Vetro del 1915-23. Un omaggio significativo a quello che è forse il più grande artista del Novecento, certamente il più innovativo. Colui dal quale si è dipanato anche questo filo, insieme con molti altri, della aggrovigliata matassa della contemporaneità.
Protagonista di quel movimento è anche un grande artista che nasce come danzatore-performer: Robert Rauschenberg. Pelican (1963) è una performance “danzata”, ideata ed eseguita da lui con altri due danzatori. Lui e il suo collega indossavano un paracadute aperto come grandi ali e volteggiavano – come la danzatrice – su pattini a rotelle. Era un’azione dedicata ai fratelli Wright, gli eroi della prima trasvolata atlantica. Se ne fecero diverse versioni con lo Judson Dance Group e con l’intervento di un altro celebre coreografo, Steve Paxton.  Personaggio assolutamente emblematico della contaminazione fra le arti è Bob Wilson. Coreografo, regista e insieme artista visivo: ha esposto in tutti i grandi musei del mondo, ha ricevuto nel 1997 il Leone d’Oro della Biennale di Venezia per una scultura-installazione. Ha eseguito in anni recenti una serie di videoritratti, i VOOM Portraits, di personaggi famosi che sembrano immagini fisse ma poi si animano con sguardi ammiccanti, sorrisi. Per esempio, ecco Brad Pitt in mutande e calzini corti, mentre esibisce il corpo statuario sotto una pioggia scrosciante.  
Ma il capolavoro più rappresentativo di una rivoluzionaria dimensione di teatro, musica e arte di visionarietà surrealista è l’opera di Wilson con musica di Philip Glass e testi poetici di Christian Knowles, Einstein on the Beach (1976). Opera di partitura complessa, della durata di oltre cinque ore, ispirata al personaggio di Einstein (vita, teorie, serie matematiche) che nella prima al Festival di Avignone impegnava orchestra live e organi elettronici, cantanti solisti (tenore, soprano) e coro.  Ancora musica, ma sotto forma di suonata di violoncello solista, domina in una performance di Nam June Paik passata alla storia perché la musicista, Charlotte Moorman, era rivestita di schermi tv su cui i suoni erano tradotti in impulsi visivi (Tv Cello, 1971). Irrompeva così sulla scena questo grande pioniere della videoarte, di origine coreana, ma naturalizzato americano dopo aver compiuto studi in Europa. Ma così un’altra storia ancora si apre: quella dell’arte della riproducibilità tecnica, elettronica e telematica. L’arte che si esprime con la fotografia (analogica e digitale) con il video, il cinema, il computer... Il tempo che un autorevole sociologo della comunicazione, Vilem Flusser, ha definito della tecnoimmaginazione. Restiamo nel territorio magico del Corpo.
Dalla musica senza danza, passiamo a una esperienza di danza senza musica che esce dal teatro per riversarsi in spazi anche aperti come i tetti e le scale di New York, oppure occupa stanze di museo, ne scala le pareti o vi compie acrobazie. Parliamo di Trisha Brown e delle sue storiche performance Walking on Walls (1971) e Roof pieces (1973).  Nel 2007 Trisha Brown è stata invitata a partecipare come arti- sta, con tutta la sua compagnia di danza, a una grande rassegna internazionale d’arte come Documenta a Kassel. In una stanza del Fridericianum si stendeva una sorta di graticciato sui cui ferri erano legate e tese delle fasce di stoffa di diversi colori. Era già così una installazione autonoma, una struttura multipla di incastri anche cromatici. Ma ogni mezz’ora, nella struttura si intrufolavano i danzatori di Trisha Brown, misurando con posizioni acrobatiche le diverse possibilità di occupazione flessibile dello spazio (Accumulation, 2007). Quanto accadeva dal versante della danza trova corrispondenze con le mutazioni che sconvolgevano il teatro di prosa, e nei suoi incontri con l’arte visiva nell’ambito di uno spazio delimitato che può essere una stanza di museo piuttosto che un palcoscenico. Alla nudità dei corpi danzanti corrisponde la nudità dei corpi sulla scena, come in una desolata immagine da Il principe costante (1968) di Jerzy Grotowski.  Il grande commediografo polacco è stato l’ideatore e l’assertore del “teatro povero”, nel Laboratorio da lui fondato nel 1965 a Wroclaw. Il testo da lui pubblicato nel 1968 apparve come “il libretto rosso della rivoluzione nel modo di pensare l’attore”. Scriveva Grotowski: ”Eliminando gradualmente tutto ciò che è superfluo, scopriamo che il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza uno spazio scenico separato (il palcoscenico) senza gli effetti di luce di suono ecc. Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva diretta. Questa è un’antica verità teoretica, ovviamente. Mette alla prova la nozione di teatro come sintesi di disparate discipline creative, la letteratura, la scultura, la pittura, l’architettura, l’illuminazione, la recitazione...”
L’Arte Povera italiana, le cui prime prove risalgono al 1967, fu così battezzata da Germano Celant: proprio assumendo il termine dal teatro di Grotowski. Esperienza che ha germinato in vari modi: dall’Odin Theatret di Eugenio Barba, al Laboratorio che lo stesso Grotowski stabilì in Toscana, a Pontedera. Sul filo del rapporto fra arte del corpo e arte visiva corre anche Tadeusz Kantor, autore e regista di teatro ma anche artista visivo (persino pittore) e performer. Celebre La classe morta (1975) che l’autore definì una “seduta drammatica”: una grottesca scolaresca di anziani strepita – sotto l’occhio impassibile del regista-maestro – e si agita, tra frammenti di storia scolastica e di eventi drammatici del loro paese, la Polonia. Esce e rientra in circolo. Sperimenta così l’incapacità, l’impossibilità del “folle desiderio di tornare indietro nel tempo”, alla fine accumulando i cadaveri-fantocci di se stessi bambini. La contemporanea installazione realizzata da Kantor nel suo teatro Cricot a Cracovia chiarisce un passaggio fondamentale nella sua poetica della morte e della memoria. Qui la “classe mor- ta” presenta proprio dei fantocci di bambini col volto cereo, immobili dietro vecchi banchi come relitti (“ciò che rimane dopo la distruzione”). I bambini hanno già vissuto la loro vita, sono morti. “Ma solo attraverso la morte – scrive Kantor – questa classe si riempie di ricordi, e solo allora i ricordi cominciano a vivere”.
 Sul versante dell’arte, la pratica della performance ha dominato gli anni Settanta e ha conosciuto riprese interessanti e diramazioni diverse nei Novanta. Una esperienza fondamentale di messa in gioco del corpo, il proprio innanzitutto, è quella di Marina Abramovic. Nata nella Ex Jugoslavia, vissuta fra Europa e Asia, ora sta a New York. Sono azioni che vanno da prove estreme di contatto, di resistenza fisica al dolore e alla paura, alla memoria plastica di situazioni di violenza legate alla storia collettiva e privata. Sempre in una dimensione che possiamo definire teatrale: perché compiute negli spazi di gallerie assunti come luoghi scenici con spettatori, e perché dai corpi nudi – il suo e quello di Ulay, suo compagno di vita sino agli Ottanta – è passata ad apparati che possiamo definire scenografici o addirittura coreografici.  A questa proposta di arte come teatro drammatico del corpo si contrappone una diversa esperienza, che conferma come i percorsi di cambiamento e di contaminazione non siano lineari, né univoci. Per dirne una: dagli impegnati anni Sessanta-Settanta la concezione dello spazio dell’arte come spazio performativo, teatro da camera, è passata attraverso la fase postmoderna della distanza ironica, della citazione, della messinscena non tanto dei corpi quanto dei loro simulacri. Esemplare della cultura emersa fra gli Ottanta e i Novanta è la cristallizzazione della performance in tableaux vivants compiuta da Vanessa Beecroft, l’artista italiana che è stata a lungo considerata come la più famosa al mondo insieme a Maurizio Cattelan (vive a New York). Due anni fa a Venezia, durante la vernice di quella Biennale, dispose sotto le arcate dell’antico mercato del pesce presso Rialto un gruppo di statuarie modelle negre: distese per terra come morte uccise in laghi di sangue simulati da acqua tinta di vernice rossa, gettata con gesti sapienti dalla stessa artista. Evocava le stragi nel Darfour, la terra africana assurta a tristi onori di cronaca per la guerra civile che l’ha martoriata. Una estetiz- zazione della tragedia, una mattanza congelata in una sorta di composizione iperrealista, o di servizio-choc per riviste di alta moda.  
Dal glamour all’ironia, con un tocco di cinismo. Così l’artista tedesco Tino Sehgal commentava il sistema dell’avanguardia come moda (al quale lui stesso appartiene) in una performance anch’essa da” teatro da camera” (This is so contemporary, 2005) nel padiglione della Germania, sempre ai Giardini della Biennale. Alcuni presunti visitatori si staccavano improvvisamen- te dagli altri e correndo gridavano la frasetta: “Oh, come è contemporaneo tutto ciò...” Nell’ambito dell’arte drammatica è avvenuto dunque un grande movimento di decostruzione, frammentazione dello spazio scenico e dei tempi dell’azione. Qui il protagonismo del corpo si contamina con altri media. Fra i gruppi che sono stati pionieri in Italia di questa nuova idea di teatro globale citeremo solo la Societas Raffaello Sanzio guidata in Romagna da Romeo Castellucci. In Hey girl! (2006) una immagine di scena isolata sembra una scultura barocca o informale o neobarocca, tra Bernini e Matthew Barney. Sono in realtà colate di silicone dalle quali emerge come da una placenta vischiosa il corpo dell’attrice.
 Grandi mutazioni stanno sta avvenendo anche nell’ambito della danza. In una azione del gruppo emiliano Pathosformel, La timidezza delle ossa (2007), parti del corpo sono premute sul retro di un telo bianco che diviene così schermo animato come da frammenti di scheletri. Evidente la suggestione di richiami a tele di artisti astratti, come Fontana. Anche la “musica” è ridotta a una colonna di suoni smozzicati e lontani che emergono lentamente dal silenzio e presto si spengono.  Ma aldilà dell’invenzione di ambiguità linguistica è interessante l’indizio di superamento della cultura del glamour da parte delle nuove generazioni. L’affermarsi, in questo scorcio di Duemila, di un disagio chiamiamolo pure esistenziale, che si manifesta per frammentazioni e apparizioni. Insomma una rinnovata esigenza di responsabilità di lettura del proprio tempo. Esigenza nella quale risiede l’essenza ultima e profonda dell’arte. A questa responsabilità dell’esperienza estetica ci richiama proprio Pina Bausch. Parlando a Bologna nove anni fa, quando le fu conferita la laurea ad honorem di quella Università, disse fra l’altro: “Si deve trovare un linguaggio – con parole, con immagini, movimenti, atmosfere – che faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre. I nostri sentimenti, quelli di tutti noi, sono molto precisi. È però un processo molto, molto difficile da rendere visibile. Ma ciò nonostante, si tratta di una conoscenza che possediamo tutti, e la danza, la musica ecc. sono linguaggi molto esatti con cui è possibile far intuire questa conoscenza. Non si tratta di arte, e neanche di una semplice capacità. Si tratta della vita, e dunque di trovare un linguaggio per la vita. E si tratta sempre di qualcosa che non è ancora arte, ma che forse potrebbe diventarlo”. E dopo aver raccontato della sua esperienza, così concludeva, e noi con lei: “La fantastica possibilità che abbiamo in scena è che ci è permesso di fare azioni che nella vita normale non si possono e non si devono fare. Con questo cerco di capire da dove vengono certe emozioni. Le contraddizioni sono importanti. Tutto deve essere osservato, non si può escludere nulla. Solo così possiamo intuire in che tempo viviamo. La realtà è molto più vasta di quanto siamo in grado di comprendere. Talvolta possiamo chiarire qualcosa soltanto confrontandoci con ciò che sappiamo. E talvolta le domande che poniamo ci conducono a esperienze che sono molto più antiche, che non appartengono soltanto alla nostra cultura e al qui e ora. È come se ritornasse a noi una conoscenza che da sempre ci appartiene, ma della quale non siamo più consapevoli e contemporanei. Ci fa ricordare qualcosa che è comune a tutti noi. Questo ci dà grande forza e speranza. Le domande non cessano mai e nemmeno la ricerca. C’è in essa qualcosa di infinito, e questa è la cosa bella. Se guardo al nostro lavoro, ho la sensazione di aver appena cominciato.


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