“Fantasie Fluttuanti”: intervista a Giacomo Zaza

Antonella Marino

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Da Molfetta, a pochi chilometri da Bari, negli ultimi dieci anni sono passati in tanti: grandi artisti come Kounellis, Zorio, Kosuth, Spoerri, Carla Accardi ( che hanno generosamente realizzato progetti in loco), ma anche opere di tantissimi altri autori affermati ed emergenti della scena internazionale. Regista di questa impresa, a volte titanica per l’esiguità di mezzi a disposizione, è Giacomo Zaza, giovane curatore originario del luogo ma ormai da anni residente a Berlino, coadiuvato sempre dalla compagna Michela Casavola, competente collaboratrice nonché responsabile della comunicazione. Spazi bellissimi e difficili del centro storico, quali la Sala dei Templari o il Torrione Passari, sono stati trasfigurati di volta in volta da mostre anche concettualmente ostiche, che non sono mai scese a compromessi con localismi e facili ammiccamenti estetici. Su questa linea si colloca anche “Fantasie Fluttuanti”, la nuova rassegna al Torrione, in corso dal 29 settembre al 4 novembre.

Partiamo dalla nuova mostra, che presenta cinque artisti internazionali. Quali sono concept e contenuti?

La mostra fa parte di un progetto sviluppato in quattro tappe, questa è l’ultima. E’ una operazione di messa fuoco sui linguaggi contemporanei e sull’utilizzo dei diversi media che ha preso le mosse dalla prima rassegna, “Pulsioni performative”, avviata nel 2009 e concentrata soprattutto sull’aspetto performativo – appunto - della produzione artistica internazionale. Nel 2010 si era passati al confronto con la cosiddetta “postdimensione”, un approfondimento sul modo in cui l’artista recepisce, capta e rielabora le questioni del mondo esterno. Poi l’anno scorso il tema del viaggio, una sorta di metafora dell’arte contemporanea, accentuando l’aspetto concettuale e privilegiando video e sperimentazioni tecnologiche. Quest’ultima esposizione, intitolata “Fantasie Fluttuanti”, ha invece una temperatura più visionaria. L’aggettivo “fluttuante” sottolinea come l’artista si muova continuamente in diversi contesti: da quello politico a quello delle scienze umane ,a quello sociologico, ed arrivi ad implodere in ambiti formali o concettuali.

Con quali criteri sono stati sceIti dunque gli artisti?

Il punto di partenza è stato la conoscenza del lavoro di due autori tedeschi, Thomas Zipp e Bjørn Melhus (che è originario della Germania danese), in cui i molti riferimenti alla realtà sono trasfigurati. Per loro l’arte è una sorta di mimesi dove tutto è riconoscibile ma allo stesso tempo non facilmente codificabile, tanto da mantenere i caratteri dell’incognito. Dietro la riconoscibilità apparente si nascondono tematiche che veicolano altre questioni. Da qui lo spostamento costante, una continua fluttuazione, che per Melhus ha come fonte il mondo mediatico e cinematografico mentre per Zipp la sociologia, la filosofia, le scienze umane, la drammaturgia, ecc...

Quali lavori presentate in mostra?

Di Melhus presentiamo un video intitolato “the Castle”, un trailer che propone una scena con un monaco in un castello e tanta suspence. Sullo schermo scorrono parole - chiave come paura, amore, sicurezza, religione, famiglia, legate alla forma mentis del cittadino e della comunità. Inoltre un video brevissimo, con un unico frame un po’ grottesco, l’inquadratura dell’artista in veste di puffo, che con uno sguardo e una voce bianca ambivalente augura “felice rinascita”. Una situazione visionaria, un po’ vicina al cinema di Linch.
Zipp invece, ha fatto un sopralluogo a Molfetta e ha ideato un’installazione appositamente per la sala circolare del Torrione: una messa in scena teatrale con delle grandi bambole in ferro dalla base sferica basculante e la parte superiore in legno, che si possono muovere a piacimento. Al centro c’è un lampadario con diciotto neon, e alla parete un collage con una mela tagliata. E’ un’ambientazione ad effetto ma anche un po’ inquietante perché quando vengono mosse, le bambole producono uno strano rumore. E’ come entrare in un sogno, dove la mela fa riferimento ad un frutto proibito, oltre a riprendere la forma circolare dello spazio. Quella di Zipp è una ricerca molto criptica, che non si svela facilmente. A me l’installazione è sembrata un riferimento al teatro d’avanguardia (anche nel titolo, “Theatre Technique (cercle: Gisela, Hansi, Irmgard”), in particolare alle marionette di Schlemmer.

Come si inseriscono in questo discorso gli altri artisti invitati, Olaf Metzel, Marius Engh, e l’ unica italiana, Rä Di Martino?

Riflettendo sull’arte che si muove da un ambito all’altro ho pensato di presentare Rä Di Martino con un lavoro fotografico: una serie di dieci foto 30x30 con immagini di set cinematografici abbandonati che lei ha scovato viaggiando in Tunisia e Marocco, integrati nel tessuto paesaggistico. Le foto del reportage sono state tutte stampate a Bari. Ci sono inoltre tre scatti inediti, su tre situazioni diverse: un “tempio di faraoni”, la “Mecca” come una cattedrale nel deserto, e Tiflit, una città del Marocco. Appaiono come foto documentarie, invece si tratta di situazioni fittizie, resti di scenografie.
Anche i lavori di Olaf Metzel, che è nato a Berlino, e di Marius Engh, norvegese, sono immersi in contesti e possiedono riferimenti a varie aree tematiche. Nelle opere di Metzel si ha una chiara traccia del mondo dei media. E’ un artista impegnato ma “non politicamente corretto” come ama definirsi, che in Germania realizza grandissime installazioni che fanno continuamente discutere. Qui presentiamo due lavori, uno con Gheddafi (prima che morisse) e uno con Anna Magnani e Pasolini, utilizzando giornali italiani. Infatti Metzel ritaglia, conserva, e ristampa pagine di giornali da entrambi i lati su grandi fogli di alluminio, in seguito accartocciati. Per cui c’è sia la conoscenza di una realtà, che il ripudio di essa. Un gioco di rimandi ma anche di rinunce. Un altro lavoro importante che ho scelto per la mostra è lo stemma della DDR che lui ha riprodotto in cemento subito dopo la caduta del Muro nel ’90, ma danneggiandolo. E’ come il reperto di una realtà ormai perduta, dimenticata. C’è poi un intervento fatto apposta per il Torrione, tante bottiglie spaccate e conficcate nella parete, che diventa una sorta di zona pericolosa alla quale non ti puoi avvicinare. Anche Engh ha progettato un nucleo di opere in dialogo con il Torrione Passari in termini di storia, architettura e uso dello spazio come centro d'arte. Ad esempio il lavoro “Moon” prende le mosse da una poesia Zen intitolata “No Water, No Moon”, in cui si recita: “Non più acqua nel secchio! Non più luna nell'acqua!”. E’ un contenitore circolare in alluminio dipinto di nero e riempito di acqua fino all’orlo, in riferimento alla forma della torre e all’uso iniziale di cisterna di acqua piovana nel mare. La superficie d’acqua rifletterà la luce, quella artificiale e (forse) quella notturna della luna.

Il Torrione Passari è uno spazio comunale molto particolare, un edificio cinquecentesco a strapiombo sul mare nel centro storico di Molfetta che tu per primo hai sdoganato per l’arte contemporanea. Che difficoltà hai incontrato in questi anni? Ritieni sia cambiato qualcosa nella ricezione - comunicazione del pubblico e delle istituzioni?

Ho iniziato ad organizzare mostre a Molfetta nel 2002 (con un po’ d’incoscienza: avevo solo 23 anni!) utilizzando inizialmente la Sala dei Templari. Poi ho “scoperto” il Torrione Passari, che in origine era di privati e sconosciuto al pubblico. Dal punto di vista espositivo è nato dunque con me, prima non era accessibile. E’ stato aperto per quattro anni solo per i progetti d’arte contemporanea, poi dal 2006 al 2009 l’ha gestito il Comune. Dal 2009, sia pur con molte difficoltà, ho ripreso ad ambientarvi mostre, cercando di calibrarle bene, senza mai abbassare il livello di qualità.. Sono passato dalla scelta di dieci nomi a quella di quattro, per dare la possibilità al pubblico di focalizzare meglio i percorsi dei singoli artisti. Credo comunque che in questi anni ci sia stato un arricchimento del territorio, abbiamo creato l’occasione per un aggiornamento. Col tempo, mi è sembrato che il pubblico fosse sempre più attratto dai nuovi media e dalle installazioni. Però la vera difficoltà sta nel comunicare l’evento, perché non abbiamo un budget che ci permette di investire in quest’ambito. La Regione negli ultimi anni ci ha sostenuto, anche se con piccole cifre. Si spera che in futuro l’attenzione cresca…

Gran parte della tua attività curatoriale si svolge in Italia, eppure hai scelto di vivere a Berlino. Per quali motivi?

L’Italia non mi sembrava posto idoneo per fare ricerca nel contemporaneo. Avrei dovuto comunque spostarmi in continuazione. Così ho preferito Berlino, che da questo punto di vista è la postazione ideale: i progetti del Torrione sono tutti nati lì, contattando artisti sul posto o muovendomi per conoscere nuove situazioni, ad esempio nei paesi nordici o in Olanda. In questo modo posso studiare meglio anche i metodi adottati dalle istituzioni pubbliche e dai centri d’arte polivalenti.

A proposito di istituzioni, come concepiresti una struttura per l'arte contemporanea in Puglia?

Mi piacerebbe che nascesse a Bari un “micro” Pompidou, con retrospettive di artisti importanti che hanno riconoscimenti all’estero, ma anche con sezioni dedicate al cinema e alla fotografia sperimentale, molta didattica e rapporti con le scuole. Oppure si potrebbe seguire un modello più piccolo, tipo il Nikolaj Centre - Centro d’arte contemporanea - di Copenaghen, che è una realtà straordinaria, molto attiva e presente sul territorio. Una struttura senza collezione, ma che possa ospitare collezioni e magari una mediateca con i video di tutte le collezioni pubbliche del mondo.. Ho apprezzato molto il percorso fatto nel Margherita per rivitalizzare e spronare la politica e la comunità verso un’idea di un museo, organizzando mostre di qualità che collegano Bari al contesto nazionale e internazionale, anche se con situazioni di compromesso con lo spazio fisico. Spero che questo processo non s’interrompa….

Per tornare al dibattito internazionale, come hanno visto e giudicato i tedeschi le due rassegne chiave di quest’anno, entrambe ambientate in Germania, Documenta a Kassel e la Biennale di Berlino?

Documenta13 è stata una mostra che ha permesso di conoscere meandri linguistici mai visti. Si è trattato di un’ edizione molto equilibrata, che nei suoi rimandi globali ha fatto rientrare tutto. I tedeschi ci stanno ancora pensando, ma si sono lamentati delle difficoltà logistica di fruirla completamente. La Biennale di Berlino ha funzionato invece come una sperimentazione: difficile da classificare, da analizzare fuori etichetta. Come ribellione, cioè, al sistema istituzionale e feticistico/finanziario….

Tra Europa e Italia, ci sono tuoi nuovi progetti già in cantiere?

Il prossimo progetto, a marzo, è per una mostra al Pan di Napoli con Gianfranco Baruchello, Nicola Carrino e Hidetoshi Nagasawa, Grazia Varisco. Sto poi pensando ad un progetto a Bari completamente fuori da canoni, un’operazione particolare in uno spazio non espositivo molto forte e sperimentale. Ma non ne posso ancora parlare…


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