“IL PIACERE DEL’ARTE”: CONVERSAZIONE CON ADRIANA POLVERONI

Antonella Marino

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Giornalista per il gruppo Espresso; curatrice indipendente e ideatrice di programmi televisivi per RAI e Cult; docente di Museologia all’Accademia di Belle Arti di Brera e attualmente direttrice di Exibart, importante rivista d’arte contemporanea online, Adriana Polveroni è un’attenta osservatrice delle mutazioni del sistema del’arte in rapporto alle emergenze e alle contingenze storiche ed economiche. Tra i saggi scritti negli ultimi anni, analizza l’evoluzione dei musei This is contemporary. Come cambiano i musei di arte contemporanea, edito da Franco Angeli nel 2007; mentre s’interroga sulle conseguenze della crisi internazionale Lo Sboom. Il decennio dell’arte pazza tra bolla finanziaria e flop concettuale, pubblicato da Silvana editoriale nel 2009. E’ dedicata invece al collezionismo italiano la sua ultima ricerca, Il piacere dell’ arte. Pratica e fenomenologia del collezionismo contemporaneo in Italiadi Johan & Levi Editore, da cui partiamo per uno scambio di riflessioni con l’autrice.

Come premessa ti vorrei chiedere: a chi si rivolge principalmente il libro?

Naturalmente ai collezionisti. Ma direi poi a tutti coloro che seguono l’arte, di cui il collezionismo è un aspetto molto importante e senz’altro affascinante.

Rispetto ad altri testi che affrontano lo stesso argomento, il tuo si distingue per l’ attenzione al contesto storico- artistico, in relazione ai mutamenti che coinvolgono l’identità stessa del fare arte e i diversi componenti del sistema. Quanto influiscono questi mutamenti nelle scelte dei collezionisti?

Non a caso hai pronunciato la parola sistema. Penso che anche i comportamenti dei collezionisti – e mi riferisco ai collezionisti che seguono il dibattito sull’arte e attenti alle sue trasformazioni – operino all’interno di un contesto storico-critico e ovviamente sono sensibili alle proposte del mercato. La mia risposta quindi è sì: il sistema dell’arte influenza le loro scelte, anche se particolarità del collezionismo è un agire in prima persona, quindi con una forte impronta soggettiva.

In questo studio tratteggi un quadro dei cambiamenti del collezionismo in Italia dagli anni quaranta: in sintesi, qual è il profilo prevalente del collezionista oggi?

E’ una figura globale, che ha la possibilità di seguire fiere ed aste che si svolgono all’estero e che frequenta molto anche le gallerie straniere. Un soggetto che in Italia tende ad internazionalizzarsi ancora di più, se non altro perché all’estero può comprare con un Iva inferiore. Che, tanto per fare un esempio, in Germania è al 7 per cento.

A partire dagli anni ‘90 segnali un passaggio dalla qualità alla quantità, al possesso cioè dell’arte non tanto come status symbol quanto come style symbol o lifestyle: in che senso?

Intendo dire che negli ultimi anni ai collezionisti si è affiancata una folta schiera di “compratori”: persone interessate all’arte anche per ragioni di status symbol, essendo divenuta l’arte, e specie quella contemporanea, molto affluente, “glamour” che apre salotti e permette un certo posizionamento nella società. Personalmente non mi piace molto quest’utilizzo dell’arte come ascensore sociale, ma nei fatti è anche così.

Un altro fenomeno importante è la nascita di fondazioni, che accanto alla collezione sviluppano programmi espositivi, residenze, rapporti con territorio. Sono il sintomo di una coscienza della responsabilità sociale del collezionismo, o un modo per ovviare alla difficoltà di rapporto con le istituzioni e le limitazioni legislative e penalizzazioni fiscali?

Penso che all’origine della nascita delle fondazioni private legate al collezionismo agiscano ambedue i fattori. Dopodichè non è scontato, né facile esprimere un giudizio su questa realtà. Da un lato attiva una sana competizione tra istituzioni di diversa natura ma, dall’altro, specie in Italia, parcellizza patrimoni dati dalle collezioni. Ragion per cui i nostri musei d’arte contemporanea non hanno grandi collezioni che, specie in tempi critici come l’attuale, costiuiscono la solida sponda cui ancorarsi per realizzare mostre, programmi espositivi e culturali. Accanto a questo c’è l’idea, diffusa tra i collezionisti più sensibili, che l’arte sia un motore di sviluppo culturale e sociale. Un bene su cui investire per renderlo fruibile, in un’ottica quindi di responsabilità sociale.

Un ruolo importante indicato nel libro è la nascita di corporate collections legate a  banche ed aziende. La molla è solo l’investimento economico e la promozione d’immagine, o c’è una più diffusa consapevolezza di responsabilità etiche della azienda e dell’importanza dell’arte come laboratorio di innovazione culturale?

Anche qui non penso che si possa dare una risposta univoca. Nelle corporate collections agiscono entrambe le spinte: per loro statuto le fondazioni ex bancarie hanno il dovere di perseguire programmi improntati al sociale, la diffusione della cultura per intenderci. Così come fanno alcune aziende che si orientano nella creazione di una collezione, promuovendo anche workshop tenuti da artisti per i loro dipendenti. Ma non c’è dubbio che tutto questo si traduca anche in un arricchimento del loro patrimonio.

Tu ti sei occupata precocemente del problema della crisi economica e dei suoi contraccolpi sul mondo dell’arte. Da questo punto di vista, anche in rapporto al collezionismo, quali  scenari ritieni possibili?

Un’ovvia contrazione del mercato e delle possibilità di spesa dei collezionisti. Penalizzati anche da un controllo fiscale che passa attraverso gli acquisti che fanno in galleria o in asta. So che questo è un argomento “scabroso”, perché da un lato si vuole giustamente eliminare il “nero” che alligna nel mercato dell’arte ma, d’altra parte, bisogna considerare che in questo mercato operano soggetti (i galleristi) che, salvo pochi casi, sono grandi mercanti, essendo in genere piccole se non piccolissime aziende, spesso messe in ginocchio dai nuovi provvedimenti in materia di fiscalità e ai quali non si riconosce il merito di fare anche un lavoro culturale.

Altro argomento a te caro è quello dei musei, a cui hai dedicato un saggio, This is contemporary!, nel 2007. In questi ultimi anni, come è evoluta (o involuta) la situazione in Italia?

Mi pare che la risposta sia sotto gli occhi di tutti: male. I musei in Italia non hanno quasi più fondi. E il tutto avviene in un’indifferenza pressoché generalizzata.

Con la Puglia hai frequentazioni costanti, e al contesto artistico pugliese hai dedicato recentemente un ampio articolo su Exibart. Che idea ti sei fatta del collezionismo privato in questa regione e dei suoi rapporti con le istituzioni e le amministrazioni pubbliche? Che cosa pensi in particolare della questione Bac , cioè dell’idea di un centro o museo di arte contemporanea promossa dal Comune di Bari, impostata sul coinvolgimento di una collezione-fondazione napoletana, quella di Maurizio Morra Greco?  

Il collezionismo pugliese lo conosco per lo più attraverso le mostre curate da Lia de Venere e da te, quindi non ha una conoscenza di prima mano. Anche del progetto BAC posso dire fino ad un certo punto. Io vedo sempre di buon occhio la collaborazione tra pubblico e privato, in questo senso, il mio giudizio è positivo. Forse, si potrebbe pensare che, anziché aprire ad un solo privato, occorrerebbe fare uno sforzo ulteriore e mettersi in relazione con più collezionisti, quali emergono per esempio dalle mostre “Il Giardino segreto” che avete fatto. Ma forse questo è già nel programma del BAC. 


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