IL RILANCIO DI Miart A MILANO. Conversazione con Vincenzo De Bellis

Antonella Marino

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IL RILANCIO DI Miart A MILANO 
Conversazione con Vincenzo De Bellis, nuovo direttore artistico della Fiera di Milano
 
di Antonella Marino 
 
 
 
 
Trentacinque anni, di origine pugliese  (è nato a Castellana Grotte)  ma residente a Milano, Vincenzo De Bellis è tra i curatori più seri della sua generazione. Forte di un diploma di  specializzazione in Cultural studies al prestigioso Bard College di New York (successivo alla laurea in Beni culturali presso l’Università di Lecce e un master alla Sapienza di Roma) , dopo esperienze di collaborazione alla Gamec di Bergamo e al Museion di Bolzano, nel 2009 ha fondato a Milano (con la compagna  Bruna Roccasalva) uno spazio no profit, Peep Hole, che si è subito ritagliato un ruolo preciso nel contesto artistico internazionale. Ma il suo impegno più grande comincia adesso: ha appena ricevuto l’incarico di direttore artistico di Miart, la storica fiera d’arte milanese, che finora ha stentato a darsi una specifica identità. Il suo compito non sarà facile, ma De Bellis è già al lavoro  per rilanciare la manifestazione, con molte idee e un progetto concreto. E’ lui stesso a spiegarcelo  nei dettagli…
 
Direttore artistico del Miart a Milano: è una bella sfida, specie in tempi di crisi….
Il momento è oggettivamente critico, il sistema dell’arte  in questa fase  è in difficoltà. Io ho accettato l’  incarico, che per me è importante (ma può anche costituire un boomerang) perché sono convinto che la fiera di Milano sia quella che alla lunga può avere più solidità nel contesto italiano. Infatti  è gestita direttamente da Fiera Milano, che è un colosso privato ed ha la caratteristica di essere il più grande hub fieristico d’ Europa.
Dal punto di vista delle’ vendite e dell’affluenza di visitatori  Miart  comunque lo scorso anno non è andata male. Non si può dire altrettanto della qualità. Il problema è che il format non funzionava, soprattutto per il suo carattere molto nazionale e per il fatto che non si facesse  troppa selezione. Invece il sistema dell’arte è molto snob, e giustamente: è un modo per difendersi.
Come è avvenuta la tua nomina?
Dopo avermi conosciuto per una serie di  incontri organizzati in fiera nella scorsa edizione, mi hanno contattato spiegando: “Noi siamo ad un bivio. O questa fiera chiude o proviamo a rilanciarla”. Io però non volevo accettare l’incarico di direzione solo sulla base di una chiamata. Ho chiesto di presentare un progetto, con la premessa che se lo avessero accettato  avrebbero dovuto approvare tutto quello che vi era scritto. Ho chiesto  soprattutto di investire in efficienza di gestione. Prima ad esempio c’era un solo un direttore artistico, con  un responsabile del settore moderno e due persone che non avevano niente a che vedere con l ‘arte. Nel progetto molto dettagliato che ho presentato, non sono solo ma intorno a me si è formato un vero staff con sette persone. E’ un team di lavoro che procede insieme. Ci consultiamo costantemente, anche se il responsabile poi sono io.
Quale ricetta  stai preparando per rinnovare Miart?
Credo che la sfida di Milano sarà quella di diventare una fiera internazionale, cosa che Miart non è mai stata. Finora è stata essenzialmente una fiera italiana. Ma una  fiera italiana non può che reggersi su un sistema privato di collezionisti. Non mai creduto alle divisioni territoriali e Milano è una città che ti permette di guardare oltre i confini. Per ora stiamo facendo un lavoro di ristrutturazione. Gli spazi rimangono gli stessi, anche se nel 2004 potrebbero cambiare. C’è un grossissimo investimento sull’ospitalità per gli stranieri. E un grosso lavoro sulle conferenze, mirate a far venire un certo tipo di persone, e sui premi, a sostegno dell’attività delle gallerie sotto forma di acquisizioni. A Milano non ci sono istituzioni che acquisiscono. La Fiera ha invece una sua collezione.
Quali sono le novità nella  struttura  interna?
Abbiamo diverse novità. Le due sezioni  “moderno” e “ contemporaneo” restano, perché il mondo moderno a Milano è forte anche nel campo della moda e del design. Si pensi al design degli anni Cinquanta-Sessanta: Castiglioni e Ponti sono stati indiscutibilmente il motore della città, anche per gli artisti che tuttora guardano a loro. Ci sono poi  sezioni nuove. Una di gallerie che si occupano esclusivamente di artisti giovani ed è stata accorpata alle new entries, cioè le gallerie che partecipano al Miart per la prima volta, ma rispettando  uno di due parametri:  essere nate dopo il 2007 o lavorare con giovani artisti.  Una  sezione che si chiama “Then now” , con gallerie che presentano doppie personali in cui un artista storico viene messo a confronto con un artista contemporaneo. A questa si partecipa su invito, che viene fatto da Andrea Vigliani e Florence Derieux. L’altra nuova sezione è quella di design d’arte, che inizialmente c’era al Miart , ma che ho voluto fortemente ripristinare  perché Miart capita sempre la settimana prima del Salone del Mobile, dove viene esposto solo il  design industriale. Noi invece intendiamo proporre il design incorporato all’interno del sistema dell’ arte. La selezione sarà fatta da due esperti di design, Michela Pelizzari e Federica Sala.
Per ogni sezione ci sono dei responsabili. Per il moderno resta Donatella Volontè, la fondatrice di Miart. Poi ci sono i nuovi ingressi dei già citati Andrea Vigliani e Florence Derieux , di Andrew Bonacina, Fionn Mead e Alessandro Rabottini.  Rabottini  coordina con me tutte le sezioni.
E il comitato di selezione delle gallerie da chi è formato?
Il comitato selettivo, che si occupa della sezione “Established” con le gallerie storiche, è composto da Michele Casamonti della galleria Tornabuoni Art di Parigi, come responsabile del moderno. Per il contemporaneo ci sono Massimo Minini insieme alla figlia Francesca, Gio’ Marconi, Francesca Kaufmann, Marco Altavilla di T293, Micky Schubert di Berlino e  Laura Bartlett di Londra. E’ una scelta evidente di rottura rispetto al passato e di apertura verso il mondo esterno. Abbiamo anche ripristinato il comitato d’onore, che di solito è composto da collezionisti che non hanno ruolo reale nelle fiere. Per noi avranno  invece un compito operativo, come ambasciatori e sostenitori di Miart. Sono nove/dieci e tra loro due vengono da Londra e due da New YorK.
 Il tuo incarico è triennale, anche questa è una novità… 
Sono stato io a proporlo. L’ idea è di chiudere il percorso in bellezza con l’Expo 2015: nonostante le sue attuali difficoltà, Milano in quel periodo diventerà per forza un punto di riferimento . Il progetto è stato redatto anche in un’ottica di espansione temporale rispetto al periodo della fiera. In una città come Milano dove manca un centro istituzionale forte per l’arte contemporanea, una fiera come Miart ha il dovere di sostenere il più possibile il sistema pubblico,. “Fiera Milano” ha un grande peso nell’economia della città e anche Miart ,  che vive dei finanziamenti dei privati,  deve restituire qualcosa alla comunità.
D’altra parte una serie di progetti elaborati dalle istituzioni milanesi saranno coordinati dalla Fiera: entrano cioè in un programma, cosa che a Milano non era mai successa. Stiamo pensando anche ad un progetto molto complesso nelle case-museo, le case di pregio architettonico  che ospitano all’interno collezioni storiche, aperte al pubblico ma poco valorizzate ( come Casa Medici, Poldi Pezzoli, Villa Campigli o la Fondazione Boschi di Stefano…). Vorremmo ambientare qui  nuovi interventi di artisti e designer, ma questo sarà possibile solo se si troveranno  degli sponsor.
Milano non è molto lontana da due fiere consolidate ma anch’esse in mutazione  come Torino e Bologna. Come si pone Miart  nei loro riguardi? 
Sono  fiere diverse. Torino ad esempio non ha la sezione del moderno. Rappresenta comunque un modello a cui guardare con grande attenzione:  è una fiera che non funziona tanto come evento all’interno, ma come capacità di estendersi alla città. E’ più un festival dell’arte che una semplice fiera, quella è la sua particolarità. Da questo punto di vista secondo me è un esempio a livello europeo. Sullo stato attuale di  Bologna ho invece qualche perplessità. Ho la sensazione che la combinazione tra i due nuovi responsabili,  Giorgio Verzotti e Claudio Spadoni , possa non andare bene. Tuttavia se puntano sull’ aspetto storico piuttosto che sul contemporaneo, ce la possono fare.
Prima accennavi della situazione artistica milanese,  alla sua  carenza di istituzioni pubbliche. Vedi segnali di ripresa?
Mi sembra che con  la nuova amministrazione comunale le cose stiano un po’ cambiando. Intanto stanno tirando su il Pac, che è la kunsthalle di Milano. Non c’ è la volontà di affidarlo ad  una direzione artistica, ma le prossime mostre saranno curate da personalità come Hans-Ulrich Obrist e Francesco Bonami. Ad ottobre ci sarà una personale di Alberto Garutti, artista che per Milano è molto importante anche per la sua attività di docente a Brera: infatti in contemporanea  sarà allestita un’esposizione a Villa Reale con i suoi studenti. La mostra andrà poi alla Serpentine di Londra. All’Hangar Bicocca Vicente Todoli subentra a Chiara Bertola. C’è dunque una situazione in movimento.
Un ruolo importante,  di fronte alle latitanze istituzionali, l’hanno avuto negli ultimi anni  a Milano gli spazi no profit. Come Peep Hole, che tu gestisci con  Bruna Roccasalva. Qual è il bilancio di questa esperienza? 
In effetti quando Peep Hole è nata, due anni e mezzo fa, andava a coprire la mancanza a Milano di spazi istituzionali. Serviva un’istituzione di mezzo. La cosa ha funzionato perché Peep Hole costituisce un modello rivoluzionario in Italia. E’ un misto tra kunstverein e project space anglosassone. Svolge un’ attività di natura pubblica attraverso un sistema di sostentamento privato. Poiché soldi pubblici non ne abbiamo, organizziamo quelli che con termine inglese si chiamano credit shows. In pratica abbiamo deciso di fare una grande associazione di cui fanno parte tantissime persone, in gran parte artisti,  ognuno dei quali partecipa donando un’opera: nessuno li obbliga, ma sono consapevoli che cosi concorrono a mantenere l’associazione. Ogni 15 mesi viene inaugurata una mostra con queste opere, tutte in vendita,  e  il ricavato serve a sostenere l’attività,  che si compone di altre  quattro mostre organizzate da noi, altrettanti  progetti editoriali l’anno e una rassegna fatta con istituzioni internazionali. Il budget a disposizione è bassissimo, ma programmando con grande anticipo ce la facciamo.  Ad incidere troppo sono  le spese di affitto. Ma dopo un anno e mezza di inutile attesa di uno spazio pubblico, forse abbiamo trovato una soluzione grazie ad un’ offerta  privata:  uno spazio di 350 mq, di proprietà di una fonderia che non lo usa e che ci verrebbe messo a disposizione gratuitamente… In ogni caso l’ attività continua, i prossimi due anni sono già programmati e Peep Hole gode di ottima salute…
Il tema delle istituzioni d’arte ti sta particolarmente a cuore. Credo tu abbia seguito un po’ le vicende pugliesi e i tentativi di dotare la città di uno spazio  per l’arte contemporanea. Se non ricordo male hai anche firmato l’appello per la nascita del Bac.  Viste anche  e difficoltà in cui si trovano oggi i musei non solo in Italia , cosa credi si potrebbe fare in Puglia?
Secondo me a Bari  un  museo d’arte contemporanea con una collezione non ha senso, costerebbe una barca di soldi. Potrebbe essere interessante acquisire la collezione  barese di Angelo Baldassare che ha, o aveva, autori prestigiosi, ma la cosa mi sembra che sia esclusa di fatto. Più realisticamente andrebbe creato un centro che vive di due progetti grossi all’ anno: grossi non in termini economici, ma in termini di visibilità. Una struttura che tutto l’anno deve servire ad adeguare il pubblico al sistema, e due volte l’anno deve parlare al sistema. Deve cioè procedere a due velocità. Un esempio  di questo tipo  è la Kunsthalle di San Gallo, in Svizzera: un luogo che vive di due o tre momenti importanti, con progetti coprodotti con altre istituzioni, e  durante il resto dell’ anno si rapporta al contesto locale.
Dal punto di vista del modello di gestione credo che in Italia in questo momento non ci sia  altra possibilità che una fondazione creata da parte di un gruppo di sponsor privati, che vede poi una partecipazione pubblica. E’ il caso del Museion di Bolzano o della Gamec di Bergamo: rappresenta anche un modo per sottrarre la gestione ai rischi di ingerenze politiche!
 
 


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