IMPRESSIONI DELLA MOSTRA “CENTURY OF THE CHILD: GROWING BY DESIGN 1900-2000” AL MOMA DI NEW YORK. di Francesco Brunetti

TESTO

IMMAGINI

 Ben noto e banale: la vita si conta per tappe che si succedono. Ed in questo inevitabile conteggio, l’esercizio più elementare è quello di separare i momenti da ricordare con rimpianto da quelli a cui, invece, ripensare traendo un lungo sospiro di sollievo constatandone il loro liberatorio esser passati. Ma se la vita si conta per tappe, allora la prima di esse è proprio quella in cui questo così umano conteggio comincia a computarsi nella coscienza di ciascuno: la fine dell’infanzia. Non c’è infatti infanzia che non finisca esattamente quando la si comincia a riconoscere come tale; quando quello strano, vorace universo costante fatto di quelle minime o grandi scoperte quotidiane in cui la vita prorompe, lascia in fine il posto al dubbio, alla pulsione, alla ammaliante e malinconica tracimazione che è l’adolescenza. Si diventa adulti con un addio. E per le società, e per le idee, per le correnti artistiche non è, forse, poi così diverso. Ad un secolo a cui stentiamo a dire addio, al design “per” l’infanzia, o ancor meglio sarebbe dire alla trasformazione figurativa e sociale che l’idea di infanzia ha avuto lungo il corso del ventesimo secolo, il MOMA di N.Y dedica in questi mesi una splendida mostra intitolata “Century of the child: growing by design 1900-2000”. Quello che viene affrontato lungo l’itinerario espositivo è un percorso affascinante, a tratti sottilmente ammaliante, che si snoda tra immagini (seriali o autoriali), oggetti (di design raffinato o di più grossolana semplicità d’uso), pubblicazioni (di propaganda politico-ideologica o di pura speculazione commerciale) ed altra varia  chincaglieria ludica capace di testimoniare quanto, mai come nel Novecento, l’infanzia abbia avuto un ruolo ed una tipizzazione sociale tale da divenire, per tanti aspetti, categoria epistemologica capace di dare una chiave interpretativa ai percorsi artistici di interi movimenti d’avanguardia così come all’opera di misconosciuti poeti della figurazione. L’assunto su cui la mostra si basa e che le interconnessioni tra l’identificazione del bambino come soggetto attivo della società ed il design hanno avuto grandi ripercussioni sul tessuto socio-economico, sull’estetica figurativa e financo sull’urbanistica, modificando il modo di pensare e realizzare tanto “oggetti per bambini” quanto anche lo “spazio urbano” o i modi della figurazione del mondo dell’infanzia. È evidente, anche dalla grammatica espositiva con cui il percorso della mostra è realizzato, che da una prima visione del “fanciullo” in chiave paternalistico-assistenziale, si è via via passati lungo fasi differenti caratterizzate ciascuna da puro idealismo sociologico, pedagogismo montessoriano, retorica dittatoriale, visione libertaria sino, non ultima, alla più totale identificazione del “bambino” con la figura del soggetto-consumatore.  A ciascuna di queste identificazioni dell’infanzia è contestualmente seguita la costruzione di un immaginario estetico che ha improntato di se politica, architettura ed economia delle diverse società. L’immagine, esposta in mostra, di Walt Disney sorridente che, in un fotogramma del suo programma sulla ABC, presenta la pianta della erigenda Disneyland si può idealmente contrapporre al volto serioso di Lenin tra i bambini nella pagina, illustrata in pieno stile grafico costruttivista, del libro sovietico “I bambini e Lenin”. La mostra dunque non fallisce, seguendo una impaginazione rigorosa, nell’intento di innestare, lungo la linea temporale che scandisce lo scorrere dei decenni del Novecento, le principali tematiche di ordine pedagogico, sociologico, politico ed anche economico e ludico che hanno caratterizzato il modificarsi del senso e del ruolo del bambino nelle società novecentesche: New century, new child, new art 1900-1910s; Avant-gard playtime 1910s-1930s;  Light, air, health 1920s-1930s; Children and the body politic 1920s-1940s; Regeneration 1940s-1960s; Power play 1960s-1990s; Design better world 1960s-2000s. Una mostra contemporaneamente rigorosa e stravagante, che sorprende, entusiasma e lascia un che di nostalgico nello spettatore. Una mostra che senza le artefatte bizzarrie illusoriamente provocatorie di tanto “contemporaneo” riesce a tenere coerentemente insieme il “Cubo di Rubik” (il “giocattolo” più venduto della storia) creato nel 1974 e Klimt (Speranza II del 1908); il manifesto dell’Unicef per la campagna del 2008 “Bad Water kills More Kids Than War” (foto di Henrik Halvarsson)  ed una litografia ungherese del 1903 che illustra la “stanza ideale” del bambino; un grembiule di sartoria inglese del 1912 ed il libro “Deti i Lenin” pubblicato in U.R.S.S nel 1924; la celebre litografia di Berthold Loffler della “Kunstschau Wien” del 1908 e lo “Space Helmet” giocattolo statunitense commercializzato nel 1953; il “Guardaroba per Bambino” di Giacomo Balla del 1918 e l’“Omnibot 2000”, il robottino telecomandato prodotto in Giappone nel 1985; il manifesto italiano della “settimana del Balilla” del 1935 ed il giocattolo in legno “Monkey” commercializzato in Danimarca nel 1955. Una mostra allestita con un’apparente caotica incoerenza che però alla fine non manca di instillare il dubbio che, al cospetto delle sue tante “infanzie” vissute o mancate, del Novecento si è ancora spettatori troppo “piccoli” per capire davvero fino in fondo quanto grande sia stata una delle più importanti e sottovalutate rivoluzioni che quel magnifico e sciagurato secolo ha vissuto: l’affermazione del concetto di dignità sociale del “bambino”. Resta in ultimo la sensazione di aver ripercorso, grazie a pochi passi lungo i metri delle sale espositive, un cammino intellettuale ed artistico lunghissimo che, tappa dopo tappa, ha creato una profonda e consapevole mutazione sociale. L’aspetto più interessante che la mostra riesce magistralmente ad evidenziare è che tale mutazione sociale non ha assolutamente avuto i caratteri della casualità e della approssimazione, bensì della volontaristica, e spesso artificiosa, costruzione di un “universo sociale di senso”. Che siano stati regimi politici dittatoriali o società rette dalle regole pervasive del mercato l’approccio, guardando le opere di design in mostra, sembra sempre il medesimo: il “mondo dell’infanzia” è un mondo costruito secondo un progetto astrattamente preordinato. Ma (e nel mettere in evidenza ciò la mostra ha il suo valore principale) il “colpo di coda” dell’Arte, quella con la maiuscola, è però in agguato e avviene nel momento più inaspettato proprio quando la costruzione codificata secondo stilemi preordinati viene sconvolta dal guizzo inventivo, dalla intuizione estetica, dal funambolismo ludico. Si hanno, così, colorazioni bizzarre di oggetti industriali seriali e banali; estetizzazioni avanguardistiche in pubblicazioni librarie che dovrebbero essere di pura propaganda; geometrie innovative nella composizione architettonica di edifici che non devono assolvere ad altra funzione se non a quella d’essere asili per gli infanti; fino ad esempi di totale tracimazione dell’estetica “infantile” entro il mondo delle arti classiche ed in quelle applicate, sfocianti in un ribaltamento di senso in cui primitivismo ed infantilismo si fondono in un immaginario figurativo in cui giocosità intellettualmente anarcoide ed adulta inquietudine morale si compenetrano. Una mostra che è un po’ storia del design, un po’ storia industriale, un po’ ricerca antropologica ma che, nel suo insieme, ancora una volta palesa una verità che tanti curatori tendono a dimenticare: una mostra d’Arte (che riguardi scultura o cinema, design o architettura), quando riesce ad essere “narrazione”, ha la capacità di raccontare lo “spirito del tempo” assai più dei fiumi d’inchiostro di tanti saggi dottorali. (FRANCESCO BRUNETTI)


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