MAT COLLISHAW: CUPE RAFFINATEZZE

Francesco Brunetti

TESTO

IMMAGINI

MAT COLLISHAW: CUPE RAFFINATEZZE

 

Quando le cose se ne stanno così, immobili, come se si portassero dentro soltanto l’eco brunito della vita anziché il suo riverbero colorato e musicale, allora capita che si immagini l’accadere di qualcosa, si speri che accada… ed invece non accade nulla, ogni cosa è immobile, è ferma esattamente lì dove la si era vista solo un istante prima… ed è in quel momento che si scopre che quel che conta nell’arte non muta, che il movimento è un azzardo, il movimento è l’utopia, l’immobile è il reale. Così è nelle nature morte fotografiche (“Last meal on death row”)di Mat Collishaw, composte con affascinante e ridondante precisione fiamminga, che sono, agli occhi di chi ora ne scrive, il cuore della mostra che, nel Museo d’arte contemporanea di Polignano, raccoglie alcune delle opere del vincitore del Premio Pascali 2013. Cupe, raffinate nel loro smaccato citazionismo pittorico, le nature morte di Collishaw non lasciano spazio alla malinconia normalmente generata dal chiaroscuro estremo: sono puro raziocinio, sono idea, sono organizzazione perfetta dello spazio e della luce; sono emblema della forza dell’artista, della sua personale vittoria quando, posto dinanzi al fluire del tempo, al manifestarsi di questo sulle cose ed al problema della sua rappresentazione, lo vince negandolo, mettendo in scena quel che per definizione non muta: nella natura morta il tempo non può essere altro che soltanto un’idea evocata, un ultimo pasto che sopravvive alla morte.

Le nature morte di Collishaw tratteggiano l’oscuro, lo ingabbiano nella poetica banalità del quotidiano, mostrano tutto l’artificio (quasi pittorico) che è nella ricerca razionale dell’armonia della composizione. Ed armonico è anche il divertissement delle bollicine fluttuanti in quel diorama neo-settecentesco (“The Idolator”), macchina improbabile, lanterna magica reinventata, che solletica la curiosità di coloro che ad essa si accostano per sbirciare l’immagine al suo interno: ipnotico è il disperdersi animato delle bolle mentre sullo sfondo è fissa l’immagine del ragazzo che fa le bolle di sapone immortalato da Chardin nel suo quadro del Settecento! Anche qui un rimando all’arte del passato, una palese reinvenzione della tradizione in un gioco di citazioni che reifica l’illusorietà della creazione artistica.

La citazione dell’arte del passato è il tratto d’unione che accomuna tra loro tutte le opere; ma è un citare così personale, è talmente votato alla reinvenzione, che in realtà in Collishaw questa pratica non può non definirsi come “contaminazione” di estetiche, masticamento di immagini re-inventate con un nuovo linguaggio ed una grammatica compositiva estremamente rigorosa, raffinata: una sorta di neo-decadentismo in cui l’estetizzazione delle idee di morte, caducità, vacuità, segnano la divaricazione tra la crudeltà del tempo che scorre e la vittoria dell’arte attraverso la bellezza.

Citazione e reinvenzione, sono anche nelle opere “The end of innocence” e “Insecticide”. Nel primo caso si tratta di una scomposizione e ricomposizione senza fine dell’“Innocenzo X” già “decomposto”, ed inacidito nei suoi colori, da Francis Bacon negli anni ’50. Collishaw estremizza la decomposizione dell’immagine catturandola in un fluire di pixel che lacerano e ricostruiscono la sagoma del pontefice trasformandola in un leggero velario fatto di colori: la traccia cromatica della pennellata di Bacon diventa invece qui razionale sequenza di pixel; quel che in Bacon era voglia di mostrare la deturpazione dell’anima del potere, in Collishaw diviene, meno potentemente, affermazione del potere decostruttivo dell’artista sull’immaginario estetico contemporaneo. In “Insecticide” la raffinatezza pittorica delle foto di grande formato (quadrati di quasi due metri) cita, nella composizione delle masse di colore su fondo nero, l’espressionismo astratto aggiungendovi il sadismo della realtà dell’effetto coloristico ottenuto per mezzo delle scomposizioni e ricomposizioni delle ali di farfalla: porzioni di natura bellissima ri-assemblata secondo il piacere dell’artista in una massa cromatica che non lascia spazio alla pietà; la raffinatezza crudelissima della compiaciuta contemplazione di una natura smembrata ed estetizzata.

Un gioco estremo dell’artista con arte e natura che giunge al punto limite della reificazione della finzione: “The Cristal Gaze” sono teche di plastica trasparente retro-illuminate da neon algidi che si accendono e spengono ad intermittenza. All’interno delle teche sono ingabbiati immoti micro-paesaggi tropicali composti, con intreccio claustrofobico di fogliame, fiori, uccelli, ottenuti grazie alla sovrapposizione di foto lenticolari.

Se non fosse per la rigidità razionale della strutturazione delle composizioni, le opere si direbbero figlie di un estetismo estremo mitigato però dall’inquietudine sottesa al lavoro di Collishaw che sembra cercare di far emergere l’originaria purezza che è nascosta nel confronto infinito dell’uomo con la caducità della vita; quella purezza che l’arte cerca di eternare.

“The island of the dead”, opera allestita per l’occasione in versione monumentale, è la proiezione, nel buio salone centrale del Museo, di una rielaborazione digitale dell’”Isola dei Morti” dipinta da Bocklin a fine Ottocento. L’intervento dell’artista ha consentito digitalmente la cancellazione, rispetto all’opera originaria, della barca che conduce il feretro verso l’isola e, soprattutto ha reso possibile l’inserimento del fluire del tempo nell’opera grazie all’animazione che consente il movimento delle acque ed il mutare dei colori dell’immagine al susseguirsi del giorno alla notte. Mutevole diviene così l’orizzonte di fronde di cipressi ora mossi dal vento, cangiante il colore del cielo, fluttuante lo sciabordare del mare, leggera (eppure immensa nel perimetro buio della grande proiezione a parete) la sagoma dell’isola. L’”isola” di Collishaw, nel suo atmosferico mutare, è l’emblema forse di una utopia: quella di cancellare la terribile decadenza del reale che, con dolorosa monumentalità, Bocklin aveva fissato sulla sua tela. Se la fissità dal quadro di Bocklin evocava un viaggio da compiersi, il seguirsi delle ore del giorno e della notte nell’”Isola” di Collishaw rende invece, chi guarda, protagonista di un viaggio che non si compie mai, costretto a rimirare infinitamente un approdo cui non è possibile giungere. Tanto Bocklin è evocativo, quanto Collishaw è contemplativo.

Guardando l’opera di Collishaw, dunque, ci si lascia narrare della vita e della morte, dell’arte e della bellezza da un artista che, abilissimo a rifuggire barocchismi e facili effetti neoromantici, dà sicuramente una grande lezione di raffinatezza estetica.

 

Francesco Brunetti


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