MODA E DESIGN, TRA EROS E RITO: CONVERSAZIONE CON ANTONIO PICCIRILLI

Antonella Marino

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Difficile racchiudere in un’unica cifra creativa il talento poliedrico di Antonio Piccirilli, stilista, designer, e autore di performance e ambientazioni artistiche, nato a Bari nel 1981 ma da molti anni a Milano. Filo conduttore della sua ricerca, improntata ad una “cultura della responsabilità”, è il recupero di valori artigianali in chiave contemporanea. Il bisogno, cioè, di valorizzare antichi saperi e competenze, sedimentate radici manuali, per rileggerli attraverso una sperimentazione continua che si avvale di nuovi ritrovati tecnologici con cui innestare cortocircuiti inediti.

I riscontri  di questo percorso in crescita sono evidenti. Diplomatosi all'Istituto Europeo di Design e Moda di Milano, Piccirilli ha all’ attivo un' importante formazione con lo stilista Antonio Marras in Sardegna; la collaborazione con diversi marchi e uffici stile (Alviero Martin B&J Explorer per la Gimel, Massimo Giussani Art per Fratelli Rossetti e Henry Beguelin); e una collezione personale. Nonché la recente linea Wellness Cashmere, prodotta da Longo  & C.  A questo si aggiungono l’impegno didattico allo I.E.D Moda Milano come coordinatore didattico del Area di Fashion Design e dell'Area di Shoes and Accessories; la collaborazione con Mario Nanni per Viabizzuno e il coordinamento, con l'architetto/artista napoletano Riccardo Dalisi, delle iniziative del "Compasso di latta" per un design ecosostenibile. Negli ultimi anni ha ricevuto inoltre importanti riconoscimenti: a settembre 2009 è stato inserito dalla rivista Vogue tra "i nuovi talenti della moda”.  Mentre nel 2010 è stato invitato alla rassegna sui "50 ± anni della moda italiana" al Museum Quartier di Vienna, e selezionato nelle eccellenze del design italiano 2010 dall' Italian Design Dot Foundation (I.DoT). Attualmente alcuni suoi oggetti sono esposti in un’importante rassegna alla Triennale di Milano.

Partiamo da quest' ultima prestigiosa partecipazione: la grande mostra  “Kama. Sesso e design” in corso fino al 15 marzo alla Triennale di Milano, che schiera sul tema pezzi da novanta dell’arte e del design dall’antichità ad oggi. Tu sei presente con Nipple Ceremony, un progetto performativo ideato e realizzato insieme a Matteo Cibic. Ce ne illustri meglio concept e contenuti?

Il progetto è nato circa un anno fa per un’ iniziativa curata a Milano da Susanna Legrenzi, Stefano Mirti e Marco Petroni per il Fuori Salone 2012: cinque designer venivano accolti in cinque case “di autore” (come Mimmo Iodice e Ettore Sottsass), in cinque serate diverse. In quel periodo vivevo in un un loft nel contesto di una vecchia cascina dall'aspetto "piranesiano", tutto in legno, ed oltre ad essere ospitante dell'amico-designer Matteo Cibic, abbiamo concepito a quattro mani il progetto per Foster Care. Con Matteo ci siamo posti il problema di creare un momento di accoglienza dove tutti i partecipanti dell'evento si potessero sentire a casa. Abbiamo appunto deciso di ideare una cerimonia del tè, un momento di condivisione che in molte culture, cinese, giapponese, marocchina, ha un ruolo centrale, anche se ognuna ha un modo diverso di concepirla. In questa nostra cerimonia abbiamo utilizzato dei manufatti di design progettati da noi che poi si trasformano in props, in oggetti di scena: una collezione di teiere, brocche, campane, in edizione limitata in vetro e ceramica, soffiati a bocca e fatti a mano da ceramisti di Bassano del Grappa. Con essi ci siamo inventati una “cerimonia del capezzolo”, che è fondamentalmente un’ apologia della donna e del seno come primo nutrimento di vita. Tenendo conto che il latte in diverse culture è spesso coniugato col tè. Oltre all’ impronta poetica e concettuale, c’ è qui anche una vena ironica, collegata senza pesantezza al rito e all’eros. Per la performance abbiamo quindi studiato una scenografia con il ballerino di  teatro/danza Costantino Pirolo e la mia casa si è trasformata in un palcoscenico teatrale.

Come è avvenuto poi il passaggio alla Triennale?

Alla performance hanno assistito 150 persone selezionate, tra cui molti  giornalisti di settore. Successivamente abbiamo prodotto un video, che non e’ documento ma opera esso stesso. Questa operazione di design e arte partecipativa ha interessato Silvana Annichiarico, la curatrice della rassegna della Triennale, un’ istituzione deputata a promuovere il design nei suoi rapporti con l’ arte contemporanea, lontano dall’industrial design fine a se stesso. Ci è stato chiesto pertanto di esporre un estratto della nostra collezione di oggetti, all’interno di un percorso sui rapporti tra eros e design che annovera i più grandi designers  del mondo.

A questo proposito, quali ritieni possa e debba essere la funzione del design oggi, anche di fronte alle emergenze dello scenario globale?

Penso che il design abbia una funzione etica. Laddove “etica” per me significa proiettare lo spettatore verso un momento sacrale, inteso come momento di condivisione, di riflessione dedicato al tempo. Anche l’eros ha una valenza sacrale, perché il nostro corpo non è un oggetto sessuale. Etico è inoltre  superare la logica industriale, coinvolgere ad esempio gli artigiani, le cui competenze in Italia si stanno perdendo, e riuscire a materializzare il concetto nell’oggetto.

Da sempre tu militi comunque in diversi ambiti creativi. Ti senti più stilista, designer o in generale “artista”?

Mi sento un progettista applicato alla creatività. Credo che sia un criterio molto vecchio classificare i mestieri in un mondo estremamente connesso, che ti consente di incrociare idee. Di fronte alla velocità degli aerei, alla possibilità di viaggiare fisicamente e a distanza grazie alle tecnologie digitali, il tentativo di individuare specifici disciplinari mi sembra obsoleto. Del resto l’ arte contemporanea non è un semplice atto pittorico, ma è sempre più atto installativo, teatrale, performativo, di spettacolarizzazione dello spazio.

Il mio metodo, il mio modo di rivolgermi verso il progetto, è dunque uguale per ogni ambito.

A proposito di mobilità, tu vivi a Milano ma sei spesso in viaggio e sei da poco rientrato da una lunga residenza di tre mesi a New York. Qual'e' il bilancio di questa esperienza?

New York è una città giovane, dinamica, veloce, con una luce bellissima, in cui è veramente facile incontrare gente in tutti i settori, dalla musica, alla moda, alle arti visive. Io ci sono tornato su invito del mio agente americano, per seguire la distribuzione della collezione “Wellness cashmere” e per alcune consulenze. Qui ho fatto esperienze interessanti, ho frequentato ad esempio uno stage con Bob Wilson, un vero maestro: la sua casa studio è un incantevole scenario visionario di un surrealismo post-contemporaneo.

Sei dunque rientrato a Milano. Quali differenze hai notato nel funzionamento dei sistemi della moda e dell' arte rispetto a New York? 

Devo premettere che al mio ritorno a Milano si sono aperte nuove opportunità: ho ricevuto infatti per un anno l’ incarico di coordinatore didattico della Sezione moda dello IED. Detto questo, ciò che più caratterizza New York rispetto all’ Italia è la voglia di conoscere e riconoscere quel che è nuovo, di valorizzare il talento. New York è una città con una grande energia, una fonte rinnovabile ed alternativa. Milano è sempre stata il polo economico in Italia, ma vive un momento di stasi: sicuramente ora non è una città che vive d’avanguardia. Al suo interno c’’è sempre una parte che si muove, è un gran laboratorio creativo ma non tiene il passo con altre metropoli internazionali …

Hai lasciato la Puglia molti anni fa, ma sappiamo che il legame con il territorio d'origine è molto forte. Questo influisce sul tuo lavoro?

Milano è la mia seconda casa, ma Bari è la prima. Il mio legame con Bari è innanzitutto una speciale relazione con la luce, il sole, il mare, caratteristiche che stranamente ho ritrovato a New York. Ma si tratta di un radicamento non tanto fisico quanto di pensiero. Il Sud che è in me, il "terrone della moda" che io sono (per citare una definizione di Mita Altomare), sta nel cercare di accreditare la progettazione in atti concepiti come cerimonie, nel dare valore al tempo e alla lentezza. E a che fare con l’ospitalità, l’apertura all’altro. Tuttavia non penso di tornare a vivere in Puglia, almeno per ora, ma soprattutto non intendo vincolarmi definitivamente ad alcun luogo.

Ma che idea ti sei fatto, osservandolo a distanza, del contesto creativo pugliese? E che consigli daresti ad un giovane che aspiri a realizzarsi in campo artistico?

La Puglia, per quello che noto da esterno, ha visto nascere recentemente tante realtà creative, anche se ci sono sempre molte difficoltà ad emergere restando sul posto. Viceversa a Milano i baresi lavorano benissimo, a testimonianza della loro forza ed energia creativa. Ai giovani in generale consiglierei allora di non rimanere fermi, di viaggiare e fare esperienza fuori, possibilmente all’estero, in capitali stimolanti come Londra  o New York (dove anch’io non ho rinunciato a trasferirmi)…

Per concludere, ci parli dei tuoi prossimi impegni?

Ho inaugurato qualche giorno fa  una mostra, “Terre” curata da Marco Petroni al Plart di Napoli. Riunisce otto giovani designer internazionali legati in modi diversi al “sud” inteso in termini antropologici o concettuali. L’operazione è stata quella di mettere una piccola azienda artigianale di ceramica vicino Caserta a contatto con ciascun artista. Ognuno di noi ha disegnato un pezzo, in produzione a tiratura limitata, sul tema della rassegna. Il mio progetto si chiama “COL tèMPO”:  tempo e ritualità si combinano qui in una visione antropologica dell’oggetto. Vuol essere un elogio al sud, un pensiero sul tempo. Il senso di un’appartenenza si specchia nella lentezza del gesto. La clessidra, metafora e archetipo del tempo dà forma a una teiera. Lentamente, la goccia d'acqua prende colore, scandisce il tempo di un momento rituale, un "break" temporale e di benessere filosofico. L’oggetto di design diventa un rito cerimoniale installativo, un piccolo site specific da tavolo che teatralizza un angolo o uno spazio della casa. Una lampadina a Led si accende come un occhio di bue su un palcoscenico dove si svolge un rito personale performativo, individuale e intimo o da poter condividere con qualcuno.  E’ un dispositivo concettuale che si incarna in un oggetto dalle forme fluide, modellate dalla sapienza delle mani. Un assemblaggio di funzioni e di visioni sospese tra densità culturale e utilità allegorica.

Inoltre sto lavorando con un’azienda piemontese che ha progettato una tecnologia particolare di taglio delle pietre in fogli sottilissimi e flessibili. Io mi sono messo a studiare le sue possibili applicazioni nell’ambito della moda e del design: è ancora presto per parlarne, ma qualche anticipazione sarà presentata forse al prossimo Salone del Mobile di Milano… 


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