NON PIÙ NOSTRI COMPAGNI DI STRADA di FRANCESCO BRUNETTI

Francesco Brunetti

TESTO

IMMAGINI

La prima sensazione è quella di un gran disagio a cui segue, passo dopo passo lungo il percorso che conduce dall’una all’altra delle opere di quelli che furono i “ragazzi” della generazione più fortunata che abbia mai animato il nostro Paese, una grande rancorosa invidia per quella semplicissima gioia nascente dalla luminosa ricerca creativa che quei “ragazzi” dei Sessanta ebbero la fortuna di vivere. Vien quasi da odiarli quei “ragazzi” per quanta bellezza c’è nelle loro opere, il lirismo classicheggiante del “Peccato Originale” di Festa, il ludico assemblaggio di lamiere del trenino gioiosamente puerile di Pascali, il grafismo numerologico scabro di Kounellis, l’accidiosa sagomatura lignea di Ceroli, la sublimazione del decorativismo degli “Uomini Timbro” di Mambor, il colore untuoso e circoscritto, ma sempre vitalistico, del “Particolare” di Schifano. Quanto si può odiare quei “ragazzi” e la lucentezza degli anni Sessanta romani che portano nei loro lavori?! Odiarli perché erano bravissimi, e perché le loro opere nascevano belle, di una bellezza sfacciata perché irriverente e mai seriosa, una bellezza consapevole, vitale, non mercanteggiata, non sussiegosa, ammantata di quel fascino unico che viene dalla umettata protervia giovanile di voler scrivere una pagina nuova della storia artistica. È fantastico però odiare ed invidiare quelli bravi: e quei fortunati “ragazzi” dei Sessanta indubitabilmente lo furono! Pensavano di essere i primi di un tempo nuovo, invece probabilmente furono gli ultimi di un tempo eroico. Quello in cui per fortuna non esistevano ancora i “giovani artisti”, ma semplicemente i nuovi pittori, scultori, poeti, grafici ecc.  Il loro giovanilismo era ancora lirico, provocatorio e non aveva la bolsa cupezza terroristica, né il fanfarone edonismo paillettato, né il geometrismo informatizzato, né il coprofago mercantilismo delle “giovinezze” che seguirono negli anni a venire fino ai giorni nostri. Bene ha fatto la curatrice della mostra ha legare ciascun autore a due opere che separano gli anni “eroici” con quelli della consacrazione. Opera giovanile e opera tarda a confronto narrano, per ciascuno degli artisti esposti, con ancor più forza, il valore e la qualità artistica, persino negli inciampi compositivi, di quelle opere dei Sessanta. Le sagome di Ceroli sono sempre una gran noia allo sguardo ma “L’ora di Daria” del 1968 aveva ancora la piacevole ed efficace grezza parvenza dell’opera di bottega d’ebanista, il “Tuffatore” del 1990 invece non va oltre l’esercizio di maniera di una pratica artistica raffinata ma soporifera. Contrasta, invece, l’assoluto vertice commotivo nel più lirico dei quadri esposti: il crepuscolare “Keith Richard in concerto” di Tano Festa, dipinto che è un puro endecasillabo fatto pittura: quadro funereo, compiuto, fatto di materia pittorica minimale, di un segno grafico rapido, corposo, acidulo nei colori emergenti su un fondo lavagna prepotentemente evocativo. Un lirismo grottesco che recupera un falso infantilismo compositivo e coloristico, probabilmente debitore di Ensor, e che dà sublime compiutezza ad un percorso artistico nato, anni prima, reinquadrando porzioni dei grandi capolavori rinascimentali. Siamo, in tante opere, probabilmente dalle parti del classicismo, come conferma l’ottima “Primavera Pop” di Tacchi, profumata di tappezzeria, assolutamente anacronistica nella concezione, ma ugualmente efficace ed iconica. Giosetta Fioroni continua a non trovare il guizzo che le consenta di slanciarsi oltre una tecnica raffinata ed una compiutezza narrativa che però tende al didascalico, come in “Colapesce” del 2008. Il Lombardo del 2009 di “LAB 1000, Vertici” non riesce ad essere iconico quanto quello del “Kruscev” del 1962: là dove la sagomatura nera monocroma sublimava il gesto e l’idea della potenza massmediatica di un nome e d’una identità che andava oltre l’immagine, l’odierna multicolore destrutturazione spigolosa e geometrica della sua pittura stocastica, invece, si arresta in una rocciosa rigidità che evoca un cromatismo tardo-futurista in cui il raziocinio costruttivo giunge nelle secche della discontinuità continua del segno.

La bella mostra “Compagni di Strada”, da pochi giorni inaugurata al Museo d’Arte Contemporanea di Polignano, si segnala per il senso di perdita che lascia addosso: perdita di una consapevole spavalderia legata all’essere compiutamente innovatori senza iconoclastia di maniera; perdita di una freschezza creativa che non partiva dall’aspirare al cenotafio museale o al padiglione fieristico; perdita di quel senso di “possibilità” che animava in quei giorni lontani l’attesa di costruire il domani. Certo quei “ragazzi” furono fieramente critici, ma il tempo della storia era dalla loro parte. Noi che guadiamo le loro opere possiamo oggi solo “odiarne” con ammirazione la limpida bellezza, la vitale energia, perché non possiamo fare a meno di restarne invidiosamente ammaliati. Questi non sono tempi per le purezze estetiche di quei “ragazzi”, la loro opera appare purtroppo assai più anacronistica di un qualsiasi affresco trecentesco che raffiguri il trionfo della morte o l’inferno. Non si può non adorare Pascali, non restare affascinati dalla ciondolante giocosità delle sue opere romane, ma temo che, rispetto a lui, dell’oggi ci dica più, ad esempio, un Buffalmacco e i suoi affreschi nel Campo dei Miracoli pisano, o un Goya con un qualsiasi delle sue incisioni sui “Disastri della Guerra”, o un George Groz con uno a caso dei suoi corrosivi disegni degli anni ‘20.

Non era certo un’arte edonistica la loro, eppure oggi guardiamo i “Compagni di strada” sapendo tristemente che noi percorriamo un cammino diverso perché le loro strade non sono più le nostre ed i loro orizzonti per noi sono ormai smarriti.

 

Francesco Brunetti


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