PUTRESCENZA E SUBLIME IN DURHAM DI FRANCESCO BRUNETTI

TESTO

IMMAGINI

“CAMMINO TRA I LEGNI DI DURHAM E IL CEMENTO DEL MARGHERITA: TRA PUTRESCENZA E SUBLIME “

Di Francesco Brunetti

Chi cerca Durham, al Margherita, troverà, nell’opera, l’artista; ma non la protesta, l’antropologia fatta arte, l’oggetto totemico, il feticcio del tempo, - temi a lui cari -, quanto piuttosto un rigore poetico estremo fatto di pochi basici capisaldi: la forzosa discesa chiaroscurata della luce sulla materia lignea o lapidea; la quasi monocroma tavolozza con cui il tempo colora la materia, sia quella naturale privata della vita, sia quella artefatta dalla meccanica umana. Grigio, marrone terroso con riflessi ambrati, verdi rugginosi, il nero delle combustioni. Poco altro. Un corpus di sculture fatte in una poeticità rigorosa, monumentale, astrattamente sonora.

Visitare la mostra è anche adoperarsi in uno strano esercizio: accostarsi alla parete posticcia e forata che divide il foyer dalla restante  inaccessibile parte  dell’edificio; sbirciare oltre gli squarci con voyeurismo bramoso e felicemente puerile; guardare nella penombra quelle membra d’arte celate nella polvere di quel monumento sepolcrale laico che è il Margherita oggi. Quel che c’è al di la è l’opera malinconica di Kounellis che, monumentale anch’essa, ancora troneggia in quella che fu la platea: rovine scheletriche di una massa metallica scarnificata; lance conficcate nel corpo laterizio del Teatro che sembrerebbe aspirare ad una eccelsa e decadentistica putrescenza materica, quella stessa che solo l’arte riesce ad elevare a “sublime” dando dignità al disfacimento, alla consunzione, alla vittoria del tempo sulla materia, al rugginoso trionfo dell’ossido sulla luce! È emblema e simbolo della dissennatezza di cui è capace l’umano quando è posto dinanzi alla “ipotesi” della bellezza vissuta, della forma materica elevata ad arte, sia essa materia scultorea o pittorica o, come  in questo caso, architettonica.

In questo ambiente fatto della scarnificata e rara bellezza delle “macerie”, in questo adorabile mausoleo, ancor più poetiche e monumentali appaiono le opere di Jimmie Durham, in cui il profumo rugginoso dei metalli conficcati nella materia ambrata del legno si sente ancora emanare tra le polveri cementizie del cantiere-museo che le abbraccia: è l’odore acre dell’arte, delle resine ormai rinsecchite in quegli enormi e pachidermici monconi d’ulivo accasciati sul pavimento scabro e grigio al di sotto della grande cupola liberty del foyer. Siamo quasi alla metafisica: la materia che, pur morente, non muore del tutto per mezzo dell’azione dell’artista che la ferma nel suo stato di morienza: cantano ancora un lamento sordo le grinze barocche dei legni esposti; disegnano ancora immobili giochi di libere astrazioni le alternanze chiaroscurali di “libro” e “legno” nelle porzioni monche di fusto d’ulivo; persino la pietra lavica, intagliata e rotta, di alcune composizioni, sembra aspirare alla leggerezza. Con stupore, in questa mostra, si guardano opere dove si sovrappongono i metalli degli oggetti da officina alle curve tarlate del mobilio da rigattieri; dove lo specchio ricomposto sta ben conficcato nel legno; dove la pietra lavica, sbozzata o geometricamente tagliata, regge inutilmente l’asse di legno; dove giunti e morsetti stringono senza funzione razionale; dove il panno bianco di lino copre la nudità della materia lignea oltraggiata dal colpo d’ascia: è una armonia minimale che aspira all’astrazione; è un anti-retorico tentativo, forse non volontario, di trovare nella forma il materializzarsi della idea di “sublime”.


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