A TU PER TU CON FEDERICO DEL VECCHIO

Alessandra Lozito

TESTO

IMMAGINI

Napoletano di nascita ma europeo di adozione, Federico Del Vecchio si presenta come giovane personaggio chiave del mondo artistico contemporaneo. Formatosi come artista all’Accademia di Belle Arti di Napoli, classe pittura e scultura, si trasferisce presto a Francoforte dove studia alla Städelschule e poi a Glasgow dove, vinta una borsa di studio, si specializza con un master alla Glasgow School of Art. Sono anni di crescita professionale, personale e relazionale, molti dei contatti e dei legami instaurati in queste città costituiscono per questo giovane artista l’inizio delle sue collaborazioni future.

Insieme ad Ala Roushan, compagna di studi e di viaggio incontrata a Francoforte, inaugura a Napoli un spazio no profit, “FLIP PROJECT SPACE”, dove si susseguono, a partire dal 2011, una serie di progetti artistici caratterizzati dalla pluralità dei linguaggi artistici. Poesia e immagine, parola e scultura, installazione e arte visiva si fondono e si interfacciano producendo effetti dirompenti in una Napoli spesso troppo salottiera e poco sperimentale.

Intercetta la faticosa vita culturale barese in occasione della chiacchieratissima mostra “Display – mediating landscape” che ha allestito qualche settimana fa nella Sala Murat insieme ad Antonella Marino, e nota ai tabloid nazionali soprattutto per la brutta fine di alcune opere finite nella spazzatura, a causa di una ‘svista’ da parte di un’ inserviente.

L’abbiamo incontrato sotto un caldo sole di primavera, alle prese con mille idee per la testa e progetti in cantiere.

 

“A Bari non c’ero mai venuto. E’ meno stressante di Napoli. C’ero stato per un workshop in casa Vessel, con Nina Möntmann, una bravissima curatrice tedesca che lavora e indaga il difficile clima esistente tra Israele e Palestina. Mi interessava incontrarla”.

 

Ti presenti come artista e curatore insieme, i due ‘ruoli’ non configgono mai?

Non esistono questi confini, sono cliché che appartengono solo ad una mentalità poco elastica. All’estero esistono persino spazi commerciali che convivono con circuiti artistici no profit. Non penso neanche di agire in virtù di una politica di autopromozione. Lo escludo. Ho passato gli ultimi anni della mia vita viaggiando e incontrando gente che lavora in questo campo, ho conosciuto molti artisti o curatori che gestiscono spazi no profit, lavorano all’interno di circuiti fieristici e, allo stesso tempo, producono opere d’arte. Trovo inutile e riduttivo circoscrivere la creatività e il talento all’interno di etichette e ruoli netti. Conosco curatori che hanno alle spalle tutt’altro percorso formativo o professionale, e, nonostante io abbia studiato come artista, la pratica curatoriale mi ha sempre affascinato.

 

Com’è nata l’idea della mostra? Perché qui a Bari?

L’idea del display non nasce come una piattaforma su cui poggiare delle opere, non vuole essere un pretesto per essere anticonvenzionale. Non è una mensola, ma uno spazio che coinvolge una coralità di lavori. Flip cerca sempre di attivare delle conversazioni, dei dialoghi costruttivi tra persone, artisti, poeti, scrittori, con cui abbiamo rapporti da più o meno tempo, e con i quali ho avviato delle discussioni ‘artistiche’ che man mano prendono forma in diversi modi. È così che nascono i progetti come Display. Quando poi si presentano le condizioni giuste e favorevoli, non bisogna più perder tempo. Il progetto del Display è disegnato insieme ad Ala Roushan, architetto e designer di interni, che ben interpreta quel filone di studi di una architettura non legata alla casa, ma piuttosto di matrice sociale, sensibile a situazioni politiche specifiche. Abbiamo coinvolto anche critici e scrittori, addetti ai lavori o curatori che hanno cercato di intervenire sul display, sul grande continuum di legno povero ma resistente che si srotola nello spazio, diventando un vero e proprio format reiterabile nel tempo e nello spazio. Abbiamo deciso di interpellare molti artisti sia perché lo spazio è di grandi dimensioni, sia perché opere di maggiore portata avrebbero comportato costi di spedizione e allestimento differenti. Spesso il no profit crea delle metodologie e soluzioni alternative anche per ovviare alle problematiche economiche, come in questo caso.

 

Possono crearsi condizioni favorevoli e, a volte, sfavorevoli, come la gigante bagarre appiccatasi attorno al caso delle opere finite nella spazzatura…

Ormai se ne è parlato in lungo e in largo circa l’accaduto, abbiamo persino pubblicato una risposta ufficiale sul nostro blog (www.flipprojectspace.com), sono episodi che possono capitare; resta tuttavia spropositata la reazione mediatica e trovo ridicoli alcuni giornalisti insistenti che continuano a fare spettacolo facendo comparire la nostra mostra costantemente in questa pagliacciata. Per fortuna questo “misjudgment” non ha minato la riuscita del nostro lavoro.

Dove finisce il lavoro di “Federico artista” e dove inizia invece l’attività di Flip project space?

Normalmente vengo invitato come “Flip project”, che rappresenta l’estensione della mia pratica. Alla fine il mio interesse non è produrre un bel oggetto, quanto invece il processo creativo che c’è dietro: spesso infatti i testi vengono considerati allo stesso livello delle opere. Dunque all’interno dei progetti di Flip anche le produzioni di scrittura diventano materiale espositivo attivando un dialogo costruttivo tra i curatori e le opere d’arte.  

Flip Progect Space ha sede a Napoli in un appartamento all’interno di un palazzo storico del 1690. Questo luogo nasce come il mio studio, proprio perché le autentiche mattonelle in stile e i soffitti molto alti si prestavano molto bene ad accogliere mostre e performance, come per esempio Ancient Erotic di Simon Devenport e Mattew Gregory, rispettivamente artista e poeta, già precedentemente in contatto per alcuni lavori, e che, per l’occasione, hanno interagito producendo una performance. Poi è stata la volta di Alfred Boman e Hannes Michanek, due pittori svedesi che hanno studiato con me a Francoforte. Siamo stati, in seguito, invitati a partecipare a svariate mostre tra cui due a Toronto e, anche, ad Artissima Lido.

 

Come gestisci i costi di produzione delle mostre che organizzi? Riesci ad usufruire di finanziamenti pubblici o privati?

Molti spazi no profit non hanno una sede fisica, questo rispecchia anche il contesto instabile in cui viviamo. Ultimamente mi sono informato per avere un nuovo spazio a Napoli, anche perché gli artisti che conosco abitualmente in giro per il mondo sono sempre molto entusiasti ed affascinati dall’idea di venire a lavorare al Sud Italia. Desidero trovare un nuovo spazio, ma tra Regione, Comune e collezionisti privati, al momento tutti i meccanismi di finanziamento sono bloccati. Quindi vado per la mia strada, coinvolgendo artisti di caratura molto elevata, spesso ben collocati nel mercato internazionale, con cui produco progetti vincenti anche se a costo zero. Nel caso specifico del progetto Display, per esempio, gli artisti con cui ho un forte rapporto ormai da tempo, di stima e rispetto reciproco, hanno provveduto a pagarsi autonomamente le spese di spedizione delle opere.

Questa è, purtroppo, l’infelice faccia di una città poco aperta alla ricerca artistica: all’Accademia di Belle Arti di Napoli non c’è un dibattito attuale, stimolante, i professori non sono coinvolti nel confronto contemporaneo. Questa mentalità mi è sempre risultata stretta, da qui il desiderio di andarmene. A Napoli, infatti, ci vivo male, la qualità della vita non permette di esprimerti. In Scozia e in Germania ho respirato quell’aria internazionale e produttiva che ti consente di realizzare progetti importanti.

 

Al momento sono in cerca di uno sponsor italiano che sostenga la mia partecipazione al ISCP di Brooklyn, dove sono stato selezionato per un programma di residenza per artisti. Finanziatore o mecenate italiano, che, a quanto pare, non riesco a trovare. Della serie “Me lo posso scordare”. Fossi stato svedese o norvegese la situazione sarebbe stata completamente diversa!


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