20.07.2011

Musei in transizione di Stefania Zuliani

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Né tempio né mausoleo – quella sinistra «tomba di famiglia delle opere d’arte» di cui aveva scritto con tagliente crudeltà Adorno alla metà  del Novecento – il museo all’inizio del XXI secolo ha una centralità indiscussa all’interno del sempre più complesso e flessibile sistema dell’arte, offrendosi non più, non solo, come ipertrofico monumento all’iperconsumo, gigantesco e sempre uguale mall center che segna, senza identificarle, le contrade indistinte del mondo globalizzato, ma proponendosi, sempre più spesso e con sempre maggiore convinzione, come uno spazio dialogico e dinamico, disponibile al contagio e alla trasformazione.
Un dispositivo, prima ancora che un contenitore, aperto, attivo, persino virale, come lo ha definito in occasione del Convegno A Mezzogiorno dell' arte-Egemonie culturali e sapere dell' esperienza Franco Purini, capace di innescare processi di trasformazione e di transizione che contravvengono alle logiche del consumo e dell’omologazione globale. Se davvero il museo più che il recinto privilegiato di una, inevitabilmente separata, utopia, è, piuttosto, feconda eterotopia, ovvero uno spazio che, ha scritto Michel Foucault, è radicalmente altro e la cui essenza sta proprio nella «contestazione di tutti gli altri spazi»[1], è infatti possibile pensare proprio all’istituzione museale, nata nella modernità come autoritario strumento di disciplinamento- dei saperi ma anche della folla, che guardandosi nelle sale ordinate dell’esposizione è divenuta pubblico[2] - come al luogo che oggi, in un tempo ormai lontano dalle prescrizioni moderne come pure dalle stanche derive di un certo lassismo critico postmoderno, può affermarsi come un credibile laboratorio di interpretazione e di costruzione, prima ancora che di ostensione, del significato. Certo, non si tratta più di ridiscutere, e magari decostruire, il potere del museo secondo lo schema oppositivo proposto, era il 1971, da Duncan F. Cameron nel saggio The museum, a temple or the forum, dove ad essere sottolineata era la necessità di opporre all’auctoritas della tradizione i fermenti del forum, in una fusione, o in una compresenza, delle due istanze che ha trovato controversa soluzione nel Beaubourg («la macchina Beaubourg, la cosa Beaubourg, come dargli un nome?» si chiedeva caustico Baudrillard), così come non è questione di recuperare le esperienze, pur decisive e corrosive, della critica istituzionale degli anni settanta, oggi assorbita dal museo stesso che ne ha fatto, per fortuna non senza pericolosi residui, cosa da museo.
 
Il problema che oggi il museo pone (e al tempo stesso prova a risolvere) è quello di negare non il peso della tradizione, la retorica del monumento, quanto l’indifferenza del mercato globale, l’indeterminatezza sciatta e senza racconto di quello che Rem Koolhaas, con delirante e compiaciuta lucidità, ha definito Junkspace, lo spazio di stucchevole orizzontalità della Città generica, «trasparente come un marchio», di cui proprio il museo, il trionfante museo performativo, rischia di essere l’espressione più suadente e convinta: «i musei sono Junkspace bigotto; non v’è aura più solida della santità. Per accogliere i convertiti che hanno attratto, i  musei trasformano su vasta scala lo spazio “cattivo” in spazio “buono” […] Monasteri gonfiati fino a raggiungere la scala del centro commerciale: l’espansione è l’entropia del terzo Millennio, diluisciti o muori»[3]. Il proliferare degli ipermusei, riconosciuto banco di prova e vetrina per le contemporanee archistars,  spesso frutto delle politiche di diffusione planetaria di un, sempre meno caratteristico, brand museale  (e basterà citare il caso ormai consolidato del Global Guggenheim, divenuto, secondo Germano Celant, «una macchina da spettacolo e da qualificazione urbana» senza dimenticare il sempre più internazionale Hermitage) è insomma il sintomo, vistoso e persino sfarzoso, di un processo che è, a un tempo, di incontrollata esuberanza edilizia e di derealizzazione, un processo che se conferma la posizione centrale del museo nell’attuale  global media market (Boris Groys), non può poi che sancire l’aggressiva museificazione del mondo: «l’impossibilità di usare ha il suo luogo topico nel museo. La museificazione del mondo – ha detto Agamben - è oggi un fatto compiuto»[4]. Rispetto a questa condizione paradossale, in cui ad affermarsi è la sostanziale omologazione dei progetti architettonici e delle funzioni – che differenza c’è, in fondo, tra il Guggenheim di Bilbao e il Louvre di Abu Dhabi? - tocca al museo stesso porsi come argine, come consapevole barriera e ostacolo, affermando la propria specifica natura di argine e frontiera. Una mobile frontiera, certo, da rinegoziare e costruire ogni volta, non solo tra l’esterno e l’interno del museo, fra ciò che si conserva e ciò che si crea, ma anche fra i diversi soggetti che vivono il museo, lo attraversano, lo abitano per il tempo di una presenza che deve essere esperienza critica e interrogazione, e non solo veloce intrattenimento.
 
Se quella del “museo globale” (da non confondere – ha avvertito opportunamente Hans Belting - con il museo dell’era della globalizzazione)[5], appare una dimensione rassicurante e accondiscendente perché sempre riconoscibile e sempre identica, a Roma come a Pechino, espressione seducente di una strategia che, nel puntare esplicitamente sui servizi al pubblico, più che potenziare le conoscenze e raffinare le attese dei visitatori, ha scelto di assecondarne le curiosità proponendo, in una logica che è quella della domanda e dell’offerta, forme di rapido consumo, è evidente che per contrastare questa insidiosa condiscendenza si debba lavorare ad una differente, più impegnativa e specifica relazione tra l’istituzione museale e il suo pubblico. Del resto, al di là del permanere di orientamenti consumistici e del facile ricorso, spesso poco consapevole, al marketing, secondo una tendenza che ha segnato in particolare il dibattito museologico degli anni novanta, il nuovo secolo sembra aver già annunciato altri percorsi per il museo, indirizzi di ricerca e di progettazione che, pur nella loro pluralità, esprimono la comune esigenza, magari non sempre pienamente riconosciuta e articolata, di costruire nuove, specifiche forme di dialogo e di relazione con il pubblico, che non è un’astratta eventualità del museo, o addirittura, è questa la discutibile tesi di Jean Clair, un pericoloso incidente, ma la sua vocazione e il suo necessario presente. Ne è esempio efficace la proposta, elaborata dall’antropologo americano James Clifford, di interpretare il museo come privilegiata «zona di contatto»[6], come territorio di costruzione e di rielaborazione di significati a partire dalla consapevolezza della differenza.
 
Un’ipotesi, questa del museo inteso innanzitutto luogo di relazione e di contatto e, quindi, di riconoscimento e di elaborazione dei conflitti,  che mi pare risponda in maniera convincente alle sfide di una società che, proprio perché globale, ha bisogno, innanzitutto, di ridiscutere i propri confini. Può sembrare un paradosso, ma come ha sottolineato di recente Régis Debray nel suo affilato elogio delle frontiere, sono proprio le frontiere, «assurdità necessarie» che «servono a fare corpo», a garantire la possibilità stesso di incontro e di scambio fra diversi e la volontà di cancellarle altro non  è che «il soffio al cuore di una civiltà diventata quella dei musei»[7]. Ridisegnare con pazienza la geografia, umana e culturale prima ancora che politica, di un mondo reso fragile dalla globalizzazione non è, sia chiaro, un gesto reazionario – quanti sono del resto i muri invalicabili che si stanno sostituendo alle permeabili frontiere? quanti gli artificiali, inesistenti confini regionali rivendicati come brutale antidoto alla mescolanza? - è, piuttosto, un atto di denuncia contro la rinuncia al dialogo, inattuabile senza il confronto tra riconosciute diversità. Insomma, è proprio a partire dalla discussione degli ambiti e delle frontiere che è possibile praticare il meticciato, e il museo, in quanto, si è detto, porosa, sempre negoziata, «zona di contatto», ha il compito e la  possibilità di mediare tra le ragioni della differenza e le istanze identitarie, nel tentativo di scongiurare rischiose  tentazioni di tribalizzazione. Il museo tribalizzato, ha scritto Arthur C. Danto «ha senso in riferimento al gruppo per cui gli oggetti che contiene sono “un’arte tutta loro”», lasciando però esclusi tutti coloro i quali non appartengono alla medesima realtà comunitaria e dividendo quindi «il pubblico tra coloro che sono destinatari di quell’arte e tutti gli altri»[8].
Compito del museo, però, non è quello di dividere, di escludere, ma di porre in relazione: «quando i musei sono visti come zone di contatto - precisa Clifford - la loro struttura organizzativa in quanto collezione diventa una relazione storica, politica e morale in corso: una serie di scambi, spinte e strappi carichi di potere». Trasgredendo alle logiche del mercato, che vogliono la soddisfazione a tutti i costi del consumatore, per il quale si apparecchia una sorta di mirabolante «grande magazzino globale di culture», il museo – ciascun museo – anziché farsi portatore di uno stabile contenuto culturale, celebrativo e identitario, può a ragione proporsi come luogo di mescolanza, crocevia di sguardi, sito di passaggio, di discussione e anche di contestazione. A patto che, naturalmente, il museo non si prefigga più come obiettivo la costruzione o la formazione del proprio pubblico, né la comunicazione univoca del proprio contenuto vivendosi piuttosto come territorio di transizione, di contatto, appunto, in cui provare a dare sistemazione non gerarchica a istanze e conflitti plurali, intrecciando molte e mai definitive «storie di contatto». Un museo dialogante, in cui determinanti non sono le ricchezze materiali, i documenti e le collezioni, ma le attività,  che riconosce il ruolo attivo del pubblico, un pubblico che, nell’era postauratica, è sempre più critico e creativo e che non viene misurato in quanto audience, oggetto delle strategie di marketing finalizzate alla creazione di consenso ma curato, educato  in quanto micro-comunità che nello spazio del museo si conosce e si riconosce[9].
Due modelli alternativi, “pubblico audience” e “pubblico comunità”, che, pur lavorando su un terreno comune, quello dell’analisi del pubblico del museo attraverso i legami sociali, si muovono seguendo obiettivi divergenti, perché se scopo del marketing è quello di semplificare e mediare le tensioni attraverso la merce (fosse pure la sofisticata merce-museo), facendo del visitatore un consumatore soddisfatto, la funzione educativa, di cui il museo è, innanzitutto, artefice, si realizza piuttosto nella messa in gioco delle differenze, così da creare una comunicazione in grado di costruire significato. Così, il pubblico appare sempre meno il fruitore passivo della proposta museale, di cui più che essere destinatario diviene attore – ancora sperimentali ma certamente di grande interesse le esperienze della  “museologia partecipativa”, che coinvolge il pubblico nella progettazione stessa della politica culturale ed espositiva del museo[10] - in un incrociarsi di ruoli e di funzioni che corrisponde, tra l’altro, agli orientamenti più recenti del sistema dell’arte. Sempre più spesso, infatti, si affermano, ad esempio, pratiche di curatela condivisa e collettiva – per citare un esempio recente, l’edizione 2010 di Manifesta. Biennale europea di arte contemporanea è stata affidata a tre collettivi curatoriali transnazionali: Acaf (Alexandria Contemporary Arts Forum), Cps (Chamber of Public Secrets) e Tranzit.org, che ha tra l’altro proposto un singolare protocollo, una vera e propria  Constitution for temporary display [11]– come pure molto attiva ed anche controversa nelle sue differenti espressioni è la figura anfibia dell’artista curatore[12], a conferma di come sia in atto un complessivo rimescolamento delle forze e delle funzioni che intervengono e definiscono l’artword. Un fenomeno che è stato da alcuni letto come un semplice riflesso delle logiche di flessibilità del tardo capitalismo[13], ma che può forse essere la premessa di una diversa piegatura del sistema espositivo, dove al prestigio di un’autorialità singola, che non di rado è appena una griffe, si possa sostituire la responsabilità condivisa di un processo gestito in maniera plurale e polifonica. Al di là, comunque, delle molteplici interpretazioni e prospettive, resta il fatto che l’intero complesso espositivo vive oggi una transizione decisiva, un momento di trasformazione che, dettato anche dalla difficile contingenza economica, può, ed è questo l’auspicio, aprire a proposte critiche e a pratiche creative più coraggiose, disposte a rispondere con responsabilità alle contraddizioni del tempo presente, i cui turbamenti e desideri fortunatamente entrano oggi a pieno titolo  anche nelle stanze, ormai non più inaccessibili e silenziose, dei nostri musei. 

[1] Michel Foucault, Les hétérotopies, Les corps utopique, Institut National de l’audiovisuel, Paris 2004, trad. it. Utopie Eterotopie, a c. di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli 2006, p. 25

[2] Cfr. Tony Bennet,The birth of the museum. History, theory, politics, Routledge, London-New York 1995.

[3] Rem Koolhaas, Junkspace (2001) trad. it Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano a c. di Gabriele Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006, p. 98.

[4] Giorgio Agamben, Profanazioni, nottetempo, Roma 2005, p. 96. Per una più ampia discussione su questi temi mi permetto di rinviare al mio Effetto museo. Arte critica educazione, Bruno Mondadori, Milano 2009.

[5] Hans Belting, Das Museum, Ein Ort der Reflexion, nach der Sensation (2002), trad. it. Il museo: riflessione e sensazionalismo? in Dopo il museo, a c. di F. Luisetti e G. Maragliano, Trauben, Torino 2006.

[6] James Clifford, Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Harvard University Press, Cambridge (Ass.)-London 1997, trad. it. Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 2008, in particolare il capitolo Musei come zone di contatto, pp. 222-259. Ho approfondito le tesi di Clifford nel saggio Vetrine de référence. Alcune premesse e qualche ipotesi sul museo del XXI secolo, in S. Chiodi (a cura di), Le funzioni del museo. Arte, museo, pubblico nella contemporaneità, Le Lettere, Firenze 2009, in particolare pp. 168ss.

[7] Roger Debray, Èloge des frontières, Gallimard, Paris 2010, pp. 61, 46.

[8] Arthur. C. Danto , After the End of Art. Contemporary Art and the Pale of History, Princeton University Press, Princeton N.J. 1997, trad. it Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, Bruno Mondadori, Milano 2008.

[9] Joelle Le Marec, Public et musées. La confiance éprouvée, L’Harmattan, Paris 2007, pp. 79-105
 

[10] Cfr. La place des pubblics. De l’usage des études et recherches par les musées, sous la direction de Jacqueline Eidelman, Mélanie Roustan, Bernadette Goldstein, La documentation française, Paris 2007, in particolare il capitolo Les «muséologies partecipatives». Associer les visiteurs à la conception des expositions, pp. 237-282.

[11] Cfr. Manifesta 8, La Bienal Europea de Arte Contemporaneo. Region de Murcia en dialogo con el Norte de Africa, Silvana Editoriale, Milano 2010. Su questi problemi si veda anche “Manifesta Journal”, Collective curating, n. 8, 2009/2010, Silvana Editoriale, Milano 2010.

[12] Ho analizzato questa figura nel saggio L'arte della cura. Stratagemmi e paradossi dell'artista-curatore, in ABO. Omaggio ad Achille Bonito Oliva. Arte e teorie di turno, a cura di P. Balmas e A. Capasso, Electa, Milano 2011.

[13] Si veda ad es. Alexander Alberro che ha definito l’artista del tempo della globalizzazione come «il battistrada di questo tipo di flessibilizzazione dei lavoratori che, secondo il sociologo Boltanski, caratterizza il nuovo spirito del capitalismo». In C/01. Quaderno del Festival arte contemporanea Futuro presente/Present continuus, Electa, Milano 2009, p. 98.


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