Giorgio Andreotta Calò

Francesco Stocchi

TESTO

IMMAGINI

BIOGRAFIA

Partiamo dai tuoi spostamenti. Mi incuriosisce il fatto che, quando prepari un progetti, tendi a risiedere per un periodo relativamente lungo ...
 
Il tempo che passo in loco è anche quello di gestazione del progetto, non solo quello di effettiva produzione. Dovrà essere così anche per l’opera pubblica che, come vincitore del Premio, realizzerò a Bari. Questo tempo mi serve per elaborare un’idea che in genere, anche se solo in forma di visione, è già abbastanza chiara dal principio. Il tempo serve a definirne i contorni, ad aggiungere o togliere elementi. Credo sia così anche nel mio atteggiamento nei confronti della vita – questo riflettere sulle cose, prendere tutto il tempo necessario prima di agire.
 
Un atteggiamento di non-rincorsa o di non-sovrapposizione. A questo proposito mi viene in mente una frase di Dante Birnbaum: "La tecnologia disgrega la percezione di un corso continuo del tempo offrendoci una moltitudine di temporalità non gerarchizzate". Qual è il tuo rapporto con la tecnologia, nel tuo lavoro come nella vita?
 
Vita e lavoro coincidono maledettamente. Vedo ancora la tecnologia come uno strumento che a volte può semplificare un’azione. Mi rendo conto che altrettanto spesso rende tutto più complicato. Fare a meno della tecnologia, ti avvicina alla tua naturale essenza di uomo e non di macchina. Fare a meno della tecnologia ti porta a una condizione di disadattamento ed estraniazione dalla società. Pensa al lavoro presentato a Bari. Si tratta di un esperimento se vuoi obsoleto, basato su un semplice fenomeno naturale: l’ingresso della luce da un foro in una stanza completamente buia, in una “camera oscura” appunto. Eppure, pur basandosi su una legge fisica così semplice, crea un effetto che ritengo ancora insuperato dalla tecnologia. Credo sia perché si tratta della realtà che noi percepiamo, non di una realtà ricostruita artificialmente. Riguardando questo lavoro a distanza di tempo, lo riconosco come autenticamente legato alla mia ricerca, all’idea del tempo incarnata dal passaggio naturale del sole, che permette la nascita del lavoro e anche la sua morte. In questo senso è un lavoro sulla morte, sulla possibilità di rigenerarsi ogni giorno e ogni giorno decadere.
 
Se penso all'immaterialità che lo caratterizza, mi vengono in mente due tuoi lavori, spesso associati ma credo diversi nelle ragioni che ti hanno mosso a realizzarli. Dal tramonto all'alba (2006) a Sarajevo e IT a Napoli. Il primo con forte valore simbolico legato alle tracce di un passato, il secondo forse più architettonico, più legato alla sua geografia.
 
Quando ho lavorato a Napoli come a Sarajevo, ho cercato di combinare elementi immateriali, come luce e suono, all’interno di un edificio. La luce usata sia a Napoli che a Sarajevo aveva un suo corpo materico perché amplificata forte, presente, i due palazzi diventavano ognuno una scultura, un monumento, prima che un’architettura. Il lavoro di Napoli creava una connessione geografica tra un centro sociale occupato e il museo Castel Sant’Elmo, dove il centro sociale rappresentava uno spazio rigenerato, riattivato simbolicamente attraverso la luce. Il lavoro di Sarajevo prendeva anch’esso la geografia come punto di partenza ma sviluppava una riflessione sul passaggio del tempo e sulla situazione politica di una città e di un paese: la torre si trova al centro della città, sull’asse est-ovest; il movimento est- ovest del sole trasforma la torre in una meridiana. Ricostruire un’alba e un tramonto artificiali significa parlare di uno stato di inizio e fine coesistenti nell’edificio. Parlare di un momento di transizione che attraversa l’edificio e un momento di transizione che attraversa, dopo la guerra, un intero paese. Si tratta dunque nuovamente di trattare l’architettura come un monumento. Entrambi questi lavori sono azioni in qualche modo non ripetibili: l’azione si sviluppa e si esaurisce in un tempo e luogo preciso, limitato. Della documentazione raccolta, capita che alcune immagini abbiano la capacità di riassumere l’azione, ma è difficile giungere a questa sintesi: il più delle volte non è possibile restituire attraverso un immagine quell’atmosfera. Questo è probabilmente un limite del mio lavoro, ma, credo, anche una sua ricchezza. Il momento in cui puoi vivere fisicamente un lavoro è tanto più prezioso perché irripetibile.
 
Prima citavamo un certo tuo uso del tempo, molto personale. Vorrei a questo proposito che mi raccontassi brevemente la tua esperienza in un gruppo di lavoro, come ti è capitato a Venezia. E come intend ora le collaborazioni?
 
Il gruppo in cui lavoravo a Venezia era formato da cinque studenti dell’Accademia: avevamo formulato una modalità di lavoro per cui in gruppo davamo vita a un display e a un concept, e su questi ciascuno di noi interveniva poi con un lavoro personale. Quindi per ognuno di noi, quell’esperienza è servita per sostenerci a vicenda, ciascuno tentando di sviluppare il proprio lavoro e il proprio percorso individuale. Immagino che un giorno potrò sentirmi di nuovo parte di un gruppo. Sento che esistono forti legami tra il mio lavoro e quello di altri artisti della mia generazione. Manca però un collante, forse un curatore che sia in grado di raccogliere queste energie così frammentate... O forse anche questo potrebbe essere compito degli artisti.
 


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