“Forget Fear”: Berlin Biennale, riflessioni a margine

Antonella Marino

TESTO

IMMAGINI

 
Che ruolo ha l’arte nella società contemporanea? O più esplicitamente, possono gli artisti contribuire a trasformare il mondo?
A questi interrogativi aperti da oltre un secolo, dai tempi delle avanguardie storiche fino ai rivolgimenti più recenti, la Biennale di Berlino in corso fino al 1 luglio si propone di offrire una risposta in senso affermativo. Sostenendo con decisione l’equivalenza diretta tra pratica artistica e impegno politico, arte e vita, in un contesto globale scosso un po’ ovunque da sussulti di rivolta, proteste  e conflitti non sanati, indignazione nei confronti di modelli e modalità di gestione del potere (economico, sociale, religioso) che hanno ormai mostrato drammaticamente la  loro ottusa e spesso violenta inadeguatezza.
Il tema, va detto è molto stimolante. E se un merito deve essere riconosciuto al curatore di questa biennale, l’artista polacco Arthur Zmijewsky ( tra i relatori del convegno “A mezzogiorno dell’arte, organizzato lo scorso anno a Bari per il Premio Lum), è di aver impresso alla sua manifestazione un taglio preciso, chiaro, netto, in controtendenza con recenti kermesse troppo ecumeniche, o generiche e nebulose.
Questo non sgombra pero’ il campo dalle polemiche e dalle contraddizioni di un’edizione, la settima, promossa con fondi pubblici (intorno a due milioni di euro) dal Kunst Werke Institute for Contemporary Art, fulcro espositivo principale di una serie dispersa di interventi che dilaga, spesso in forma di azione effimera, in vari luoghi della città.
La proposta di Zmijewsky – impegnato a sua volta politicamente (nel movimento  Krityka Polityczna) e qui affiancato da una storica dell’arte, la  connazionale Joanna Warsza, e  dal collettivo russo Voina - tira in ballo in maniera estrema un quasi totale abbattimento di confini, fino all’indistinzione di funzioni, mezzi e linguaggi, tra pratica artistica e partecipazione politica. Gli artisti invitati,  non moltissimi, in gran parte sconosciuti e di origine polacca, sono stati scelti proprio in base ad un impegno che viene prima o si identifica in toto con la militanza artistica. Difficile distinguerli dalla presenza di semplici attivisti, estremisti in alcuni casi fuori legge o dagli indignados di Occupy, cui è affidato per un sit in permanente l’intero piano terra. Il risultato è l’indifferenza verso ogni formalizzazione delle ricerche, e il proliferare di documenti, tracce, discorsi, mappature, restituiti con voluta, anche se energica, stridente e anticonsolatoria confusione.
Tra le operazioni più riconoscibili come “opera” ci sono i video di Yoanna Rajkowska ( distaccata all’interno dell’Accademia di Belle Arti ), artista polacca che racconta le motivazioni private e politiche della sua decisione di far nascere proprio a Berlino la figlia “Rosa”. Il suo lavoro è esposto in contemporanea nella berlinese galleria Voss, ad ulteriore testimonianza della capacità di assimilazione del sistema mercantile. Artisti già ben inseriti nel circuito sono inoltre Paul  Althamer, che nella St. Elisabeth Kirke propone un’azione partecipata di dialogo per immagini con il pubblico, invitato ad usare liberamente le pareti e i colori messi a disposizione.  O lo stesso Zmijewsky, qui  con un video censurato del ‘99, che mostra persone nude chiuse in una camera a gas tipo Auschwitz incongruentemente intente a giocare e scherzare fra loro.   
Scultore nel senso più tradizionale del termine è inoltre Miroslaw Patecki, autore in Polonia della “più grande statua di Cristo” , ambiguo esempio di devozione popolare (ad una riproduzione  in polistirolo della testa è intento l’ artista nel suo studio ricostruito in mostra). Sul fronte della disobbedienza civile a favore della libertà di dissenso, si pongono invece le incursioni degli anarchici Voina e le loro anche violente azioni di disturbo in Russia. Ma molti altri sono i coinvolgimenti attivi su temi caldi. La  guerra per la droga in Messico raccontata quotidianamente da Teresa Margolles con una collezione di truculenti ritagli di giornale; la questione palestinese evocata da un’enorme chiave forgiata in un campo di profughi a Betlemme come promessa di ritorno nelle proprie case abbandonate; l’ offerta avanzata da Khalid Jarrar di imprimere il timbro della Palestina sul passaporto dei visitatori, con rischiosi risvolti per chi accetta. E ancora, la ferita non rimarginata dello sterminio degli ebrei, cui Lukasz Surariac vuole offrire propositiva memoria estirpando dal campo di concentramento di Birkenau numerose pianticelle da ripiantare in vari quartieri di Berlino; e quella di Yael Bartana sul Jewish Renaissance Movement in Polonia. Passando per le dimostrazioni del Center for Political Beauty, organizzazione per i diritti umani, contro le esportazioni di armi nei paesi che li violano; o l’ ’ironica esibizione di banner pubblicitari di Mobnil, il più grande operatore telefonico egiziano, che dopo essersi prestato alla censura delle telecomunicazioni imposta dal governo in carica ora esalta con immagini di folla la rivolta di popolo nella piazza del Cairo.
Sono questioni urgenti, anche se per la verità già affrontate in arte nell’ultimo decennio: da questo punto di vista un riferimento esemplare rimane l’ edizione di Documenta a Kassel curata da Okwui Enwezor nel 2002. D’altra parte  il più esplicito richiamo di Berlino ad un impegno rivoluzionario primo ‘900 e all’ attivismo radicale anni Sessanta/Settanta, non scioglie i nodi già sollevati dal fallimento di quelle stagioni e di quelle utopie. Davvero l ’arte puo’ cambiare il mondo, magari a costo di annullare i suoi specifici? Adorno aveva già messo in guardia sul fatto che “la critica sociale deve essere innalzata a forma  e far da schermo a qualsiasi contenuto sociale manifesto”. Il margine minimo ma importantissimo di cui gli artisti, dopo la sbornia autoreferenziale degli anni Ottanta, si sono riappropriati è piuttosto la possibilità di portare allo scoperto in vari modi e con diverse pratiche i livelli di ambiguità del reale, di rileggere criticamente la realtà, facendone affiorare i lati oscuri. Un lavoro politico dunque, ma  in senso lato, capace di sollevare domande più che offrire ricette.
Nel tradimento delle sue certezze dichiarate, nell’innescare cioè un confronto anche scomodo sui limiti e le funzioni oggi possibili del fare arte, sta comunque  la forza e insieme il limite di questa Biennale. Di certo concede poco alle ricomposizioni estetiche, ma agisce pur sempre utilizzando un palcoscenico internazionale circoscritto al sistema artistico. Alla fine la sensazione è che, al di là dei singoli e discontinui contributi di autori di cui in molti casi non ricorderemo i nomi, la rassegna funzioni soprattutto come un’estensione della personale ricerca di Artur Zmijewsky. Costituisca cioè un nuovo capitolo corale di un’ indagine provocatoria, paradossale e tagliente sui traumi della storia, sulle norme etiche e  le diverse facce di rappresentazione del potere. Condotta attraverso esperimenti psicologici che mettono in scena stati di rottura, sollecitando comportamenti ambivalenti di tensione. Un disagio che coglie sia i soggetti coinvolti sia chi -  come noi in questo caso -  impatta sulla scena di Berlino con le sue  disorientanti ed urticanti operazioni.


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