VOLO DIRETTO BARI-SHANGAI: OTTO DOMANDE A MASSIMO TORRIGIANI

Alessandra Lozito

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VOLO DIRETTO BARI-SHANGAI: OTTO DOMANDE A MASSIMO TORRIGIANI

Un botta-e-risposta serrato, intenso e decisamente interessante per arrivare subito in medias res. Abbiamo provato a carpire alcuni dettagli, pensieri, sfaccettature di uno tra i protagonisti della “cabina-regia” della scena artistica contemporanea internazionale. Chi è Massimo Torrigiani? Laureato a Bari, prima ricercatore alla De Montfort University di Leicester (UK) con un gruppo dedicato allo studio del rapporto tra politiche culturali e sviluppo urbano, tra creatività e città, poi fondatore di Boiler, casa editrice e agenzia creativa con sede a Milano che attualmente pubblica Fantom, trimestrale internazionale di arte e fotografia. Ha lanciato e diretto riviste d’arte e cultura (Boiler e Rodeo); scritto di arte, musica e moda per periodici come L’Uomo Vogue, Purple Fashion e Rolling Stone, ha, inoltre, partecipato come formatore alla prima edizione del Premio Lum. È l’attuale direttore di una delle art fair più monitorate e seguite del momento, sia per le proposte dei suoi contenuti che per il suo contesto, l’immensa città di Shangai.

 

 1.  Qual è il bilancio di questa sesta edizione di SH Contemporary, la seconda sotto la sua direzione? I numeri sembrano più che buoni: può definire raggiunti gli obiettivi prefissati? È soddisfatto del lavoro realizzato?


- Direi proprio di sì, ma il mio ruolo mi porta soprattutto a pensare alle cose da migliorare. Mentre chiudiamo l’edizione 2012 siamo completamente assorbiti dal 2013. Con SH Contemporary abbiamo il compito di contribuire allo sviluppo del mercato dell’arte in Cina e di creare a Shanghai un vero festival del contemporaneo. Penso sia essenziale esporre insieme all’arte la città, il contesto nel quale viene prodotta e mostrata. Fa capire a tutti che le opere non sono solo il prodotto del lavoro degli artisti ma testimonianze di processi culturali più profondi. Osservare l’arte è sempre osservare dinamiche personali e collettive, correnti politiche ed emotive, il conscio e l’inconscio. E osservare se stessi; aspettative, bisogni, pregiudizi… Gli artisti sono sempre dei veggenti e l’arte è il prodotto dei desideri e delle capacità di fare e di immaginare. Per questo, anche in fiera, l’equilibrio tra piano commerciale e curatoriale è al centro dei nostri pensieri e delle nostre azioni.

 

 2.      Oltre che l’estrema apertura verso l’innovazione, secondo lei, il mondo dell’arte contemporanea occidentale che cos’ha da imparare dal sistema-arte cinese?


- Nello specifico poco e niente, sono due mondi incommensurabili. E non direi che dal punto di vista istituzionale abbiano molto da insegnarci. Più in generale, dovremmo approfittare del fatto che i movimenti culturali della Cina e dell’Asia ci costringono a ri-definire le categorie che siamo abituati a usare per rinnovare il nostro vocabolario, ridisegnare le nostre costellazioni di riferimento. Se vogliamo guardare alla luna e non al dito che la indica.

 

 3.      Ci sono molte disquisizioni e intere pagine di ‘inchiostro’ dedicate alla figura controversa del curatore. Esistono dei requisiti ben precisi che ne traccino il profilo, o è davvero il mestiere più eclettico e sfaccettato di questo ambiente, una specie di cultural wizard come definito sul web patinato (vogue.it)?


- Credo che quando Federico Chiara mi ha definito così intendesse la quantità, e mi auguro la qualità, dei progetti che ho fatto e dei territori che ho esplorato. Non mi considero un curatore ma conosco curatori di troppi tipi per generalizzare - dalle prime donne agli umili servitori dello stato, dagli indipendenti agli istituzionali, da chi lavora per pochi a chi si barcamena tra tanti, da chi riconosce al proprio lavoro una funzione ancillare a chi rivendica a sé una statura creativa pari a quella degli artisti. In molti casi i curatori sono quello che istituzioni, mecenati, collezionisti e occasioni gli consentono di essere. Adesso si vive in un mondo dell’arte che sembra combaciare perfettamente con il loro. È un mondo nuovo, il riflesso di un mestiere camaleontico e indefinibile. Bello anche per quello.

 

 4.      Lei è di origini baresi e ha collaborato alla prima edizione del Premio Lum. Conosce e segue le vicende baresi dell’arte contemporanea? E cosa conosce del progetto BAC all’interno del Teatro Margherita di Bari? Una vicenda ormai annosa che giunge ad un momento di stallo, dove i due attori protagonisti, Comune di Bari e Regione Puglia non trovano accordi e soluzioni. Che ne pensa a riguardo?


- Non conosco tutti i dettagli, ma non mi stupisce. Il disinteresse per le attività culturali, gli interessi di gruppi e partiti e l’ossessione per la governance che porta ogni discorso al “chi e come” invece che al “cosa e perché” ha come risultato delle belle paralisi. Mi sembra che il costo politico di un investimento come quello richiesto dal BAC possa essere troppo alto per chi sta al potere. La domanda è: “perché Bari dovrebbe avere una kunsthalle?”. Se solo capissero che un progetto così può cambiare la città e che potrebbero vantarsene in tutto il mondo… Ma c’è gente in cui è piccola pure la vanità.

 

 5.      Cosa manca alla nostra regione e alla nostra città per potersi dotare di una realtà artistica permanente, stabile, affidabile, aperta alla ricerca e alla produzione, qualitativamente alta e impermeabile a qualsiasi localismo sia culturale che politico? L’unico esempio che possiamo proporre a riguardo è il museo Pino Pascali di Polignano, da poco dotato di nuova sede, che però è stato esposto a numerose critiche esterne circa le scelte curatoriali e il dubbio restyling architettonico.


- Il nuovo Museo Pino Pascali non l’ho ancora visto, quindi non ne parlo. Allargando lo sguardo, direi che manca l’interesse per l’arte contemporanea da parte delle elite culturali, economiche e politiche. I veri interessati sono, siamo, una ininfluente minoranza. La maggior parte dei talenti continua a cercar fortuna altrove. Scuola, università e politiche culturali - con pochissime eccezioni - sono allo sbando. Il presente dipende dall’impegno dei singoli o di gruppi che si creano per affinità, e restano inevitabilmente marginali. Sta cambiando qualcosa? La base si allarga ma temo che la punta della piramide resti lontana, piccola e ottusa. Si vorrebbero accontentare tutti, sagre del panzerotto e vestali del teatro d’avangardia, e si finisce per non accontentare nessuno. Non si tratta di dare al pubblico quello che vuole ma quello che non sa ancora di volere. Le politiche culturali devono giocare d’anticipo, non rincorrere gusti, tendenze e consumi. Ma questa responsabilità chi se la prende?

 

 6.      Si immagini di avere l’incarico di rilanciare una fiera come Expo Arte, che ha avuto una storia importante ma è ormai da anni in inarrestabile declino. Facendo un rapidissimo e improvvisato brain storming, quali idee le vengono in mente?


- Manco da Bari da troppo, ma a occhio e croce direi di risparmiare tempo e soldi e lasciar perdere. Invece di rilanciare una fiera, che non serve, proverei a sostenere la partecipazione alle fiere e ad altre manifestazioni internazionali di artisti baresi e pugliesi e delle gallerie, sempre una grande risorsa, nuovamente in crescita. Penso, per esempio, a Doppelgaenger, Muratcentoventidue e Fabrica Fluxus, restando a Bari. Cui fanno da contraltare raffinati progetti curatoriali che arrivano fino a Gagliano del Capo, Salento profondo. E sosterrei il collezionismo di aziende e istituzioni, pubbliche e private. Per cominciare.

 

 7.      Conosce giovani artisti pugliesi? Quali sono i nomi o i progetti italiani che ritiene –ad oggi - particolarmente interessanti e per quali motivi?


- Di artisti ne conosco tanti, e bravi, da Giuseppe Gabellone a Francesco Arena a Chiara Fumai… Di alcuni sono amico, ma devo ammettere di non avere un occhio di riguardo per la Puglia. Non sono abituato a pensare per origini e confini. La domanda “di dove sei?” non ha molto senso e mi auguro ne avrà sempre meno. Per quanto riguarda l’Italia ci sono tante esperienze importanti. Per restare a quelle note, fondazioni private come Trussardi e Prada a Milano, Nomas a Roma, Morra Greco a Napoli. La Fondazione Trussardi è interessante perché è nomade e “rigenera” spazi poco frequentati o dimenticati della città. La Fondazione Prada ha un impianto più tradizionale, ma si regge sull’intelligenza, la curiosità e la libertà di due grandi collezionisti. A Milano per anni senza di loro avremmo avuto solo le gallerie. Una situazione anche più grave di quella di Bari, che almeno non ha mai avuto la pretesa di essere una capitale internazionale della creatività contemporanea. La Nomas sostiene giovani artisti e curatori in maniera organica e sempre più cosmopolita. La collezione e l’approccio della Fondazione Morra Greco promettono ottime cose… Pochi esempi tra tanti. Del modo in cui i governi trattano i musei pubblici - non solo quelli d’arte contemporanea - non c’è molto di buono da dire. L’unico stabile penso sia sempre il Mart di Rovereto - che gode dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige – ed è guidato da donne, bravissime, come Gabriella Belli, prima, e ora Cristiana Collu. Fanno convivere moderno e contemporaneo, mostre spettacolari e rigore accademico. Uscendo dal contemporaneo, un modello di gestione innovativo del patrimonio storico-artistico e culturale è quello della Fondazione Musei Senesi guidata da Luigi Di Corato. Poi ci sono le riviste e i progetti editoriali, piattaforme curatoriali e di incontro che secondo me in Italia sono così attive proprio per bilanciare la mancanza di istituzioni: Mousse, Kaleidoscope, Cura, Agma

 

 8.      Ultima domanda. Ha recentemente definito l’Italia un paese “meschino e periferico”, parole forti e arrabbiate, ma quale ‘terapia’ potrebbe salvarci? Sarà il caso, come diceva Giuseppe Verdi, di “tornare all’antico, affinché ci sia di nuovo progresso”…


- Parlavo di arte contemporanea e ho semplicemente evitato gli eufemismi. In Italia non c’è bisogno di tornare all’antico ché ci siamo sempre stati. Bisogna pensare al presente, l’unico tempo che conta, e tirarci fuori dalle sabbie mobili.


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Chiaro e conciso

Ottima intervista e bellissime risposte. Anche ad un ignorante come me ha fatto capire qual'e' la situazione in italia. Un'amara riflessione sulla realta'. Mi piace quando dice "Non sono abituato a pensare per origini e confini. La domanda “di dove sei?” non ha molto senso e mi auguro ne avrà sempre meno."

Spero qualcosa cambi e le istituzioni riflettano. Anche se io sono pessimista come Torrigiani

Chiaro e conciso

Ottima intervista e bellissime risposte. Anche ad un ignorante come me ha fatto capire qual'e' la situazione in italia. Un'amara riflessione sulla realta'. Mi piace quando dice "Non sono abituato a pensare per origini e confini. La domanda “di dove sei?” non ha molto senso e mi auguro ne avrà sempre meno."

Spero qualcosa cambi e le istituzioni riflettano. Anche se io sono pessimista come Torrigiani

ll’antico ché ci siamo sempre

ll’antico ché ci siamo sempre stati. Bisogna pensare al presente, l’unico tempo che conta, e tirarci fuori dalle sabbie mobili.

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